Trentotto anni fa, il 28 maggio del 1980, avevo 20 anni. Quattro giorni dopo, il primo giugno, sarei partito per il servizio militare. Il giornalismo era ancora un sogno nel cassetto, pardon, nello zaino che stavo preparando in vista della partenza imminente. La notizia arrivò come gli spari che uccisero Walter Tobagi nella mia, nella sua Milano, mentre a piedi raggiungeva l’auto per andare al Corriere della Sera, dove lavorava già da otto anni. A farlo fuori, a soli 33 anni, fu un gruppo terrorista, composto da giovani in buona parte rampolli di famiglie cosiddette “per bene”. Lo ammazzarono come un cane in via Salaino, poco lontano da casa sua. Il suo brutale, vigliacco omicidio fu rivendicato dalla “Brigata 28 marzo”, una nuova sigla del terrorismo di estrema sinistra che faceva così irruzione nella cronaca nera cittadina e del Paese intero. A quell’agguato proditorio parteciparono sei “persone”, chiamiamole così: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. A sparare il colpo mortale fu il “leader” (anche questo chiamiamolo così) del gruppo, Marco Barbone. Colpendo lui, volevano probabilmente colpire un giornalista con la schiena dritta. Un democratico, un socialista, che si occupava seriamente, da esponente del sindacato lombardo e nazionale, dei problemi di lavoro dei suoi colleghi, e non solo. E soprattutto un inviato sul fronte del terrorismo, che seguiva meticolosamente le vicende dei cosiddetti “anni di piombo”. Tobagi analizzò le realtà milanesi, genovesi e torinesi, il fenomeno del pentitismo, fino a uno dei suoi ultimi articoli, intitolato “Non sono samurai invincibili”. Sfatò diversi luoghi comuni sulle Brigate Rosse e gli altri gruppi armati, denunciando i pericoli di un radicamento del terrorismo nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro. Nel 1978 diventò presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e consigliere della Federazione nazionale della stampa, l’organismo sindacale della nostra categoria. Tobagi sapeva, per le continue minacce ricevute, che prima o poi i terroristi lo avrebbero eliminato. Lo scrisse in una lettera, il giorno di Natale del 1978, a sua moglie Stella: “Al lavoro di questi mesi va data una ragione, che avverto molto forte. E’ la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente, e che cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani, per contribuire a quella ricerca ideologica che mi sembra preliminare per qualsiasi cambiamento, in meglio, nei comportamenti collettivi”. Anni fa, quando ho presentato il mio libro “Milano meravigliosa”, al Circolo della Stampa, mi fu concessa per l’occasione, e in modo assolutamente involontario, la sala a lui intitolata. E siccome parliamo sempre di emozioni, amici e colleghi miei adorati, pensate a come mi sia potuto sentire, durante il mio soggiorno in quel luogo così solenne, mentre in compagnia di altri, meravigliosi “maestri” del mio mestiere (che mi onoravano della loro presenza e della conduzione della serata) parlavo del mio scritto senza pretese, davanti un pubblico attento e affettuoso, ma ignaro (pur magari facendo cadere l’occhio sulla targhetta in bronzo con la scritta “Sala Walter Tobagi”) di quell’imbarazzante e immeritato regalo che mi era stato fatto…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)