Da bambino, come quasi tutti i bambini, sognavo di diventare un calciatore bravo e famoso, un autentico campione, un fuoriclasse, e di giocare nel Milan, la mia squadra del cuore. Giocavo all’oratorio e ai giardinetti di via Benedetto Marcello, aspettando il giorno in cui sarei partito alla conquista del mondo calcistico, sul tetto del mondo pallonaro. E quel giorno arrivò, un pomeriggio di inizio estate, quando avevo dieci anni. Il potenziale successo si materializzò sotto forma di un osservatore proprio della società rossonera, tale signor Gatti, che si avvicinò a me e ai miei amici, mentre stavano disputando una partitella ai giardini, presentandosi e chiedendoci se ci sarebbe piaciuto fare un provino al campo di allenamento di Linate. Noi bambini, dopo un momento di naturale diffidenza, nei confronti di quell’uomo, di un adulto sconosciuto, ma che si rese disponibile ad incontrare i nostri genitori, accettammo con grande entusiasmo e con il cuoricino gonfio di speranza e la mente ricca di immagini fantastiche su quello che sarebbe potuto diventare il nostro futuro, se avessimo superato quella prova così emozionante. Quindi, il giorno prestabilito ci presentammo al centro sportivo del Milan a Linate accompagnati da mio fratello, che ci caricò sulla sua Fiat Cinquecento color azzurro cobalto. Eravamo in quattro: io, Enrico Ragnolini, Paolo Di Corato e Roberto Moro. Insieme a moltissimi altri bambini ci fecero entrare, uno alla volta, in una stanza, dove c’erano alcuni dirigenti seduti a una scrivania, che ci chiesero nome, cognome, anno di nascita e ruolo. Sui primi tre quesiti, beh, non ho avuto esitazioni. Sull’ultimo, invece, dovetti pensarci su un attimo, una frazione di secondo in cui passai in rassegna tutti i ruoli del centrocampo e dell’attacco, le due zone del campo dove mi piaceva giocare. Allora, rompendo gli indugi, esclamai “mezz’ala”, trovando così un possibile compromesso tra i due ruoli dell’attaccante e del centrocampista prevalentemente offensivo. A bordo campo, i responsabili del provino, Mario Trezzi, Francesco Zagatti e Carlo Annovazzi, vecchie glorie del Milan degli anni Cinquanta, distribuirono le maglie, soltanto quelle perché i calzoncini, i calzettoni e le scarpe dovevamo portarle noi. Mi diedero una maglia nera pesante, di lana, con il numero 10 sulla schiena, ma molto, troppo grande per me. La infilai dentro i calzoncini e mi usciva addirittura da sotto. Paolo ed Enrico, invece, vestirono rispettivamente le maglie verdi degli avversari numero otto e nove, mentre Roberto dovette restare a guardare da fuori la partita, insieme a mio fratello, perché non aveva gli indumenti. Pronti via e le due formazioni si danno subito battaglia, con molta confusione a centrocampo. I bambini, si sa, corrono tutti dietro al pallone senza molti criteri, se non quello di mettere il pallone in porta. Io corro, dribblo e anche se ogni tanto mi menano mi diverto molto, gioco senza patemi d’animo. Ad un certo punto, il mio portiere, che è alto e grosso e che più che un coetaneo sembra mio zio, mi vede libero sulla sinistra e mi serve con un lancio di mano degno di un rinvio di piede. Io ricevo la palla, mi giro e comincio l’ennesima discesa danzata, con un’irresistibile serie di finte e con la palla letteralmente incollata alla pianta del mio piede destro. In quel modo, mi bevo tutta la difesa dei “Verdi” e mi trovo tutto solo, davanti al portiere. Con la medesima finta, lo supero, ma lui, ormai sbilanciato, mentre sto per depositare dolcemente la palla nella porta sguarnita, mi aggancia la caviglia sinistra con una mano e mi fa crollare a terra. Urlo di dolore, appena frano al suolo. L’arbitro, Mario Trezzi, fischia senza indugi il calcio di rigore, mentre io cerco faticosamente e dolorosamente di rialzarmi, con le gambe e le braccia segnate dalle escoriazioni e dalle sbucciature provocate dal contatto con il terreno. E lo stesso Trezzi, direttore di gara e al tempo stesso selezionatore, a dirmi di battere dagli undici metri. Io ero stremato dal gran correre e dolorante per la caduta rovinosa e invece di tirare avrei voluto buttarmi per terra un’altra volta, ma rassegnato vado verso il dischetto con il pallone tra le mani. Lo strofino più volte per creare il giusto avvallamento che lo tenesse ben fermo nella posizione ottimale. Il portiere avversario, intanto, che mi sembrava altissimo, si era posizionato fra i pali e cercando di innervosirmi e deconcentrarmi si scrostava la terra dalle scarpe sbattendole rumorosamente contro i legni della porta e poi muovendosi avanti e indietro lentamente lungo la linea bianca. Quando finalmente siamo fermi tutti e due guardo verso il palo alla mia sinistra, faccio un saltello sul posto e prendo la rincorsa. Il portiere, a sua volta, guarda per un attimo il palo alla sua destra e arcuando le spalle fa un passo in avanti, che per regolamento non poteva fare, per restringere il più possibile lo specchio della porta, poi si lancia proprio sulla sua destra, dove avevo guardato prima. Ma mentre lui è proteso in tuffo, io freno la mia corsa, faccio una torsione del busto e colpisco la palla indirizzandola sul lato opposto. Il mio piatto destro accarezza la sfera (anche perché non è che avessi molta forza, ero pur sempre un bambino) e la fa rotolare verso l’angolino basso, ma una zolla del terreno fa una specie di sgambetto alla palla e la devia quel tanto che basta per indirizzarla verso il palo, che la respinge indietro un po’ lateralmente, impedendo una mia possibile ribattuta in rete. Penso, però, che se anche il pallone mi fosse ritornato sui piedi non avrei più avuto la forza di rispedirlo in porta, perché ero stanchissimo e inebetito. Ci rimango male, e mi chiedo, a testolina bassa, se sono sveglio o se si tratta soltanto di un brutto sogno. Alzo gli occhi e incontro gli occhi dei miei compagni di squadra, poi quelli di Mister Trezzi, che si avvicina, mi mette un braccio sulle spalle e mi dice che non fa niente, che va bene lo stesso e che sto giocando davvero molto bene. Al fischio finale di quella partita, della quale non ricordo nemmeno il risultato, lo stesso Trezzi ci raduna tutti in mezzo al campo e poi legge un breve elenco di cognomi, fra i quali il mio. Dice che i ragazzini nominati devono presentarsi la settimana successiva sempre al campo di Linate, per sostenere le visite mediche. Ero stato scelto, avevo superato il provino, non credevo a quello che stava succedendo. Con me aveva superato la prova anche Enrico, bravissimo tecnicamente, con un sinistro di velluto, che metteva la palla dove voleva. Anche a lui era capitato di tirare un rigore, dopo quello che avevo fallito io, e lui l’aveva messa dentro. Paolo, invece, fu bocciato, mentre penso che Roberto, se avesse giocato, avrebbe senz’altro fatto una bella figura. Tornammo a casa, ovviamente, con stati d’animo differenti, anche se ricordo che sia Paolo che Roberto non mi sembrarono particolarmente giù di morale. Io ed Enrico, invece, non stavamo più nella pelle dalla gioia. Mio fratello ci guardava sorridendo, senza parlare. Appena vidi papà e mamma comunicai urlando la bella notizia, ma loro, a parte un breve lampo negli occhi di lui, vecchio cuore rossonero, non mi sembrarono particolarmente entusiasti. Mi dissero soltanto: “Bravo, adesso però vieni a mangiare, è pronto in tavola”. Mangiai in fretta, ingurgitando, letteralmente, la cena, mentre continuavo a raccontare, nel contenuto interesse di tutti, le mie gesta sportive. Poi andai a letto, senza guardare la tv, stravolto dalla stanchezza, ma con l’adrenalina che non accennava ad abbandonare il mio corpo. Qualche ora dopo essermi addormentato, mi sveglia in preda a un fortissimo calore e un terribile mal di testa. Chiamai mia madre, che accese la luce e accorse subito nella mia stanza. Mi toccò la fronte, bollente, poi prese il termometro e mi misurò la febbre. La sentenza del mercurio fu di quelle inappellabili: 39, 4. La mamma fece una smorfia di disappunto, mentre io cominciai a delirare. Mi diede subito un fortissimo anti-piretico, che nel corso delle ore successive fece effetto e così mi addormentai. Al mattino, ancora stordito da un sonno disturbato, vidi che sul mio corpo erano spuntate una moltitudine di macchie rosse. Chiamai piangendo la mamma, che appena mi vide gridò: “hai preso il morbillo!!”. Poi chiamò subito il dottore, che venne, mi visitò accuratamente e confermò la diagnosi materna. Cominciai a piangere disperatamente. Dopo pochi giorni avrei dovuto sostenere le visite mediche al Milan, non potevo essere così sfortunato…
Pregai papà di fare qualcosa, lo dissi anche a mio fratello, ma nessuno, in quei momenti, mi prese sul serio, nessuno rispettò la mia volontà. La cosa passò in secondo piano, anche per volontà della mamma. La sentii parlottare in cucina con papà. “Il bambino adesso sta male e di giocare a calcio non se ne parla per un po’. E poi cos’è questa storia del Milan? Lui deve studiare, altro che correre dietro a un pallone. Vogliamo che nostro figlio abbandoni la scuola, che cresca ignorante? Ricco, famoso e…analfabeta. Ti piacerebbe, eh?”. Papà non disse nulla, più per il quieto vivere che per altro. Si limitò ad alcuni cenni con il capo, poi si alzò, venne da me, e io feci finta di dormire. Mi guardò, ancora una volta senza parlare, poi uscì dalla stanza, tornò dalla mamma e le disse: “Stai tranquilla, non succederà niente di tutto questo”. Così andò. Persi quel treno che viaggiava in direzione dei miei sogni. Cercai di riprenderlo, tre anni più tardi, dopo aver sfinito i miei genitori con la mia voglia di giocare a pallone e di diventare un calciatore. Mi ripresentai, questa volta da solo, ad un altro provino del Milan. Giocai male, malissimo, toccando pochi e ininfluenti palloni e non venni scelto. Ci rimasi male ancora, ma almeno questa volta non potei prendermela con nessuno. La colpa era soltanto mia. Da quel momento peregrinai, con alterne fortune, di squadra in squadra, nelle formazioni cittadine minori. Dall’Enotria all’Herodia, dalla Lopez alla Milanese. Tutte società satelliti dei grandi club lombardi, serbatoi quasi inesauribili di campioncini in erba. Ma non riuscii più ad emergere. Ero bravo tecnicamente, stilisticamente bello da vedere, ma poco “cazzuto”, con una sensibilità eccessiva, che mi faceva abbattere esageratamente al minimo errore. L’ultima chance la ebbi a 18 anni a Saronno, una società con un passato glorioso fra i semi-professionisti. Lì giocai per un anno intero, quasi sempre titolare e in diversi ruoli del centrocampo e dell’attacco per la fortunata coincidenza di squalifiche e infortuni che in quel periodo falcidiarono la squadra. Ma come in passato, anche in quella occasione alternai discrete prestazioni a pessime esibizioni. Al termine della stagione non mi confermarono il contratto e così decisi di arrendermi definitivamente. Cercai conforto nelle parole di mio padre, che fino a quel momento, nonostante la fiera opposizione della mamma, aveva cercato in qualche modo di assecondare i miei desideri. “Figlio mio”, mi disse un giorno, “non sei tu troppo debole, né il mondo del calcio è troppo duro e cinico. Semplicemente, non c’entrate nulla l’uno con l’altro, tutto qui. Non è morto nessuno. La carriera di calciatore, anche superando le mille difficoltà del football professionistico, ma anche di quello dilettantistico, è perfetta finché si è giovani, finché il fisico e la mente reggono le pressioni così forti, ma anche quella, purtroppo, è destinata a finire. E quando la carriera è andata, anche se hai messo via un po’ di soldi, devi cercarti un altro mestiere, che non è mai facile, credimi. Che senso avrebbe avuto, fra l’altro, viverla così infelicemente? Meglio, molto meglio seguire il tuo cuore e raggiungere quella pace che in quel mondo non avresti trovato mai”…Da quel momento, qualcosa si sbloccò dentro di me. Ripresi a tirare calci a un pallone, ma senza sentirmi più addosso la responsabilità del successo ad ogni costo. Andai allegramente a giocare, fino a dieci anni fa, con gli amici e i colleghi, soprattutto a calcetto. Sui campi ridotti della speciale disciplina calcistica, circondato dall’affetto e dalla stima di tutti, diedi il meglio di me, sempre e comunque. Il mio “futbòl bailado”, come direbbero i brasiliani ( e io mi sono sempre sentito un po’ sudamericano nel modo di giocare), suscitò applausi e consensi generalizzati. Su tutte mi colpì la definizione che diede di me un collega e amico, Carlo Arrigo, nel giornalino che stampavamo dopo le nostre partitelle del lunedì sera. “Con gli anni e l’esperienza, Ermanno ha acquisito sempre più personalità e padronanza di tutti i ruoli, a parte quello del portiere, e si è ritagliato un ruolo da “universale” che ne esalta le caratteristiche di giocatore completo. In difesa è più fastidioso degli avvocati di Berlusconi; a centrocampo è utile come una pensione integrativa e in attacco, infine, è prezioso come un tartufo d’Alba”. Mi è bastato questo per sentirmi felice…