Storie milanesi, della Milano di una volta, della Milano che non c’è più, con il suo passato carico di ricordi, belli e brutti, di umanità e di vite vissute. Come quella di Umberto Aglio, milanese doc, classe 1932, nato in via Massena (una traversa di Corso Sempione), dove vive ancora con la moglie Elena. Oltre che essere un marito presente e premuroso, Umberto è anche un padre e un nonno affettuoso, con la sua unica figlia e i due suoi nipoti. “Sono rimasto orfano di mio padre (morto per le conseguenze di una lunga e dolorosa prigionia a Mauthausen, in Austria, durante la Grande Guerra) quando avevo appena un anno di vita”, racconta sospirando. “Fino all’inizio del secondo conflitto mondiale mia madre non fece fatica a portare avanti la famiglia (domestica compresa). Poi, ovviamente, le cose cambiarono. Finita la guerra (e finite le scuole medie, per me), Mamma non poté iscrivermi al liceo e poi all’università, quindi frequentai l’Istituto Tecnico Carlo Cattaneo, dove mi diplomai geometra. I primi tre anni lavorai sempre nei cantieri, con una retribuzione di trentamila lire e senza assicurazione antinfortunistica. Il primo incarico fu quello di andare a comprare i limoni per fare la limonata agli operai addetti al getto della soletta (la limonata poi veniva rovesciata sulle pignatte perché gli operai avevano già opportunamente nascosto il fiasco del vino). Comunque, quel periodo fu molto utile per imparare perfettamente la conduzione di un cantiere. In seguito, andai a lavorare nell’impresa di uno zio. L’attività si svolgeva normalmente tra l’ufficio e i cantieri, dove mi recavo soltanto per lavori di una certa importanza”.
Umberto, com’era quella Milano? Puoi descrivercela attraverso le tue esperienze dirette?
“Gli ultimi tempi di guerra, a ripensarci, furono abbastanza duri, ma ero talmente abituato a quei disagi che non ne risentivo più di tanto, anche perché non ricordavo tempi migliori. In Piazza Gerusalemme c’era una baracca di legno, che aveva la funzione di mensa; si faceva la coda per pagare e all’accesso si doveva consegnare lo scontrino. Il menù era sempre quello: una scodella di minestra di riso con i piselli gialli secchi, un secondo costituito normalmente da un pezzetto di formaggio (che dal sapore pareva fosse fatto col gesso), oppure più raramente da una fetta sottilissima di mortadella. Il pezzo forte del pranzo era la minestra, ma molto spesso era quasi tutto brodo. E poi ricordo in particolare due negozi, il lattaio e il panettiere. Si potevano fare acquisti solo con i bollini della tessera annonaria, che davano diritto a quantitativi prefissati e molto scarsi: il pane giallo e bagnato per aumentarne il peso e un misurino di latte. La città era distrutta dai bombardamenti aerei e le macerie erano ammucchiate approssimativamente, tanto per liberare le strade. Quando arrivarono gli alleati il Parco Sempione divenne un enorme accampamento per i soldati e noi ragazzi potevamo circolare senza che qualcuno ci scacciasse. Anzi, spesso ci guadagnavamo anche qualche cicca americana. Si cominciò a trovare qualcosa in più da mangiare e si poteva acquistare con facilità il latte e la pancetta, entrambi in scatola. La pancetta era tagliata a striscioline, come quella che si usava per fare il riso in cagnone, scolato e condito anche con il burro fuso e gli spicchi d’aglio. Mi ricordo anche della prima volta in cui ho visto un pallone vero: ce l’avevano alcuni soldati inglesi che avevano requisito un appartamento in uno stabile vicino a quello in cui abitavo io. Io e i miei amici di allora sfidavamo i militari sulla strada, con le porte segnate dai nostri maglioni arrotolati, che facevano da pali. Ogni tanto passava un veicolo e allora si fermava il gioco per farlo transitare”.
E poi? Vai avanti a raccontare…
“Forse il primo cenno di rinascita della città fu un trenino che transitava in via Massena per trasportare le macerie che andavano ad accumularsi nella periferia della città, al quartiere Gallaratese, per formare il Monte Stella, la Montagnetta di San Siro. Gli inverni non erano quelli di oggi e il freddo si faceva sentire. C’era l’usanza di rivoltare i cappotti e ricordo che la mia prima giacca fu confezionata proprio rivoltando la giubba militare di mio padre. La nebbia invernale era la norma, al punto che capitò anche a me di sera, camminando, di perdere la strada giusta per tornare a casa, magari dopo essere stato al cinema. C’erano diverse sale di proiezione e qualche locale dava anche il varietà. Erano famosi lo Smeraldo (a Porta Garibaldi) e l’Abanera (in via Cassiodoro). Cominciavano a migliorare anche i servizi pubblici, che in tempo di guerra si limitavano al servizio tranviario, spesso con un vagone che faceva da motrice ed il rimorchio. Il mezzo era gestito dal manovratore (il “manetta”) e il bigliettaio, che seduto alla fine della carrozza esibiva una serie di blocchetti di biglietti di vari colori, per l’ordinario, il festivo, quello serale e via dicendo. Quasi tutti gli scambi erano manuali e fatti funzionare da un tranviere che li azionava con un’apposita leva. Spesso quelli automatici si bloccavano e il manovratore doveva scendere e provvedere di persona. La stessa storia del trolley (la “perteghetta”), che in alto era munito di una rotella che scorreva nel cavo di alimentazione e frequentemente scarrucolava e il povero “manetta” doveva scendere a riposizionarla nella sua sede naturale. Per non parlare, poi, dei numerosi viaggiatori appesi all’esterno del mezzo, in piedi sui predellini o i respingenti. Gli esercizi commerciali cominciavano ad aprire con regolarità e avevano anche i prodotti che in tempo di guerra erano spariti, come il caffè. I negozi d’abbigliamento con abiti confezionati comparvero forse negli anni tra il 1950 e il 1960 e di riflesso sparirono i sarti che confezionavano i vestiti manualmente. Farsi fare un completo accadeva molto raramente e poi durava quasi all’infinito. Ricordo che con mia madre si visitava il negozio di Galtrucco, che era dietro il Duomo, verso Piazza Fontana; bisognava scegliere il colore, il tipo di tessuto e il relativo peso, a seconda se il vestito era destinato all’estate o all’inverno. Il sarto veniva a casa a ritirare la stoffa e a prendere le misure, poi due prove, certe volte nuovamente a casa e altre presso l’atelier dell’artigiano, che normalmente era l’unico locale della sua abitazione, oltre alla stanza da letto e alla cucina. Il mio sarto si chiamava Latini (non ricordo il nome) ed era il figlio di un anziano commesso che lavorava in un ufficio di Corso Sempione angolo via Massena. Una famiglia di meridionali, ma da molto tempo trapiantata a Milano.
E poi si cominciarono a vedere i primi cantieri edili, che nel giro di pochi anni aumentarono enormemente. Le armature per il cemento erano in legno ed il mezzo di sollevamento il montacarichi, che venne sostituito nel giro di pochi anni dalle gru fisse o semoventi, secondo il tipo di cantiere. I contenitori per il sollevamento del calcestruzzo erano piccole benne munite di ruote chiamate “biciclette”, che servivano per portare i materiali (malta e calcestruzzo) secondo le necessità ai punti di impiego. Alla sera si gettavano i pilastri, che al mattino successivo potevano essere disarmati per dare lavoro ai carpentieri. Ragazzini di 14 o 15 anni, alla fine della giornata lavorativa, salivano la scala a pioli che arrivava alla cima del cassero del pilastro con un secchio di calcestruzzo sulle spalle del peso di una trentina di chili e spesso l’operaio che era in cima li sollecitava usando una bacchetta di legno, che finiva con scarsa dolcezza sul fondoschiena dei giovani. Era un sistema didattico molto funzionale, diciamo così, per invogliare i ragazzi ad imparare presto il mestiere e trovarsi a loro volta con la bacchetta in mano. L’edilizia creò i nuovi ricchi perché bastava che un operaio un po’ intelligente si mettesse in proprio a costruire, con l’aiuto di qualche giovane tecnico diplomato o laureato, per creare un’impresa di costruzioni vera e propria, con guadagni non indifferenti. Il lavoro non mancava, i clienti che compravano le case nemmeno e quindi l’attività era altamente remunerativa. Il sogno della macchina, invece, doveva restare appunto un sogno per parecchio. Però negli anni ’50 si vedevano già sfrecciare i nuovi automezzi; ricordo in quegli anni le francesi della Renault, le Dauphine e la Dauphine Floride (il tipo più sportivo) e le nostre Fiat 500 e 600, che erano le prime macchine alle quali si poteva ambire. Nel 1960, dopo quasi dieci anni di lavoro, ebbi la mia prima 600. E non perché i miei risparmi me lo permettessero, ma perché uno zio, andando in pensione, me la regalò”.
Caro Umberto, potremmo andare avanti ad oltranza, a raccontare quella Milano. E forse magari potremmo scrivere un libro insieme. Invece, almeno per ora, dobbiamo fermarci qui. Un’ultima cosa, però, desidero chiederti: si parla ancora il dialetto milanese qui da noi, secondo te? Senti ancora qualcuno parlare nel vernacolo cittadino?
Guarda, Ermanno, ti rispondo (e ti saluto affettuosamente, insieme ai nostri lettori) con un testo che ho scritto tempo fa proprio sull’argomento. S’intitola “On Ciao a la parlada milanesa”.
“Ciao dialett anca ti te seet andaa ,quasi me ven voeuja de piang ,ma credi che me farò forza e te saludi inscì anca se el magon che gira in del stomic l’è tant.
Pazienza gh’è sparì el cafè del genoeuc, poeu el gamba de legn, poeu la Befana di sorvegliant, poeu anca i sorvegliant quand i ciamavom ghisa, ma funzionaven.
Adess gh’è restaa pù nient di temp indree, quand magara faseva pussee fregg e la nebbia la te scarligava giò per i polmon, l‘era l’odor de la nostra città.
Quand ho compì i votant ‘ann la mia miè e la mia tosa m‘hann fà stampà on librett che ho ciamaa “Bambanad in Milanes“, per tegnì insema on quai sonett, ona quai rima in milanes che pussee che alter ricordava i fest familiar, i nevod , el gatt e magara anca el giornalat de via Canova.
On bel moment l‘ha sarà su la botega, che ciamavom edicola e l’è sparì senza saludà i so client e i so amis.
Anca a lu ghe piaseva scriv un quaicoss in la nostra lengua, perché el milanes l‘è no on dialett, ma una vera lengua. El gh’ha avuu i so poetta
famos, senza parlà del Porta, del Cima, che hinn staa verament di letteraa, ma anca i pover diavol tant me mi o l‘Ennio de via Canova.
“Ciao Ennio come andemm?”, l ‘ era el salud de la mattina e de spess rispondeva: “ Ma va a dà via i ciapp“, poeu in italian “Uno squallore”.
Anca in di cantier ormai se parla domà italian, ma per forza, prima i operari eren lombard, poeu teron e fin chi tant tant, adess in romen, marocchin, egizian e anca turc. E allora come femm? L‘è no tant facil parlà in dialet insema a on turc .
Va ben Milan l‘era poeu la città del laurà, quand quei cont la cannetta de veder doveven tornà al so paes, adess l‘è la città della moda di defilè cont sti cinciapet, coi gamb che paren gamb de seler, che mostren quasi i ciapp in su e in giò de la sua passerella .
Chissà come sarà la tosa del pian de sora sotta i socc?
Adess l‘è pù el cas de fa el penser perché se te la troeuvet su l‘uss de cà come minim la gh‘ha in mostra el bamburin del venter.
Svampa el cantava “El bamburin de la miè d‘on ghisa“, ma adess anca lù l‘è mort . Cont lù hinn mort i so canzun: “El Dondina quand l‘è ciocch”, “El Risot”, “Porta Romana” e quanti hinn restaa in la ment.
El progress l‘ha quatà l‘Olona, la Martesana, el Tombon de San Marc e per fortuna ghe restà el Pont de la Gabella (senza acqua ) e la Conca Fallada.
Insomma Milan l‘è cambiada l‘è pù quella di giovin che beveven el chinà da Scoffone, la bottiglia dai Moriggi o a la Cantina dal Verme; adess bisogna andà al pub o a fa la “movida“.
In piazza della Scala gh‘è restaa el liter in quatter, ma a Milan in quanti le sànn?
Pazienza, numm veggett pensom a quel che gh‘era e mai el tornarà e ormai podom guardà l‘acqua del Navili Paves che la va tant me la nostra vita.
Ona volta in d‘ona ballada che parlava de Milan avevi scritt, a proposit d‘on vegg me mi che poggiaa al parapett del ponte el guardava l‘acqua scorr:
“El guarda l‘acqua del navili scorr sotta i so pee
Che la va avanti e mai la torna indree”…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)