Luci, cemento, quartieri. Di quella umanità che la popola non ne scorgo i visi, immagino solo il passo veloce. Provo a dare un nome a strade e luoghi che ho attraversato in lungo e in largo. Rintraccio spezzoni di vita, le immagini della memoria si sovrappongono, celati alla vista i cortili interni delle vecchie case d’epoca, con edere e viti canadesi che si impossessano di ogni angolo di muro, mi riportano ai primi anni in questa città. Mi tornano in mente alcune strofe di una canzone: “Le luci bianche nella notte/sembrano accese per me/è tutta mia la città”. Poi penso a quanta IMU dovrei pagare e sorrido. Voglio credere che da quassù mi sia possibile una vacanza da una serie di cose che lì sotto mi attendono e che suscitano in me sempre meno interesse. A Milano mi capita di incontrare “intellettuali” oltre la modica quantità, li riconosci perché parte della loro comunicazione ha bisogno di avvalorarsi attraverso una mimica corporea. Li ascolto, ho l’impressione che vogliano darmi in cambio di quello che pretendono delle palline di vetro colorato. Va bene che mi chiamo Selvaggi, ma non ho né la sveglia al collo né l’ossicino al naso. Li incontri dappertutto, una delle poche sere che sono riuscito a convincere il mio divano a lasciarmi uscire di casa (non so più chi mi aveva invitato) mi ritrovo in una libreria per la presentazione di un libro scritto da uno di quelli bravi, quando cominciavo a non poterne più ho provato a guadagnare l’uscita, il guru di turno si è mostrato meravigliato del mio tentativo di fuga, non ho potuto fare a meno di fargli capire che stavano rendendo nervoso il caffè che mi attendeva al bar all’angolo, appena dopo l’uscita da quel luogo. Le cene dove esserci senza che io riesca a giustificare a me stesso perché devo continuare a mostrare interesse per ragionamenti appiccicosi o di circostanza, che sempre più mi indispongono per partito preso. Non sopporto certe signore “libere di stato”, che per capire se si stanno perdendo un’occasione mi chiedono di cosa mi occupi. Panico: ci penso, ed ecco il capolavoro spiazzante: “Occupo abusivamente le panchine per evitare che i non più attivi si fermino a riflettere sui loro vuoti esistenziali”. Le cene di beneficenza, poi, sono un capolavoro; i ricchi ti invitano contando sulla tua generosità di cui in seguito si faranno merito. In una di queste serate avevo al mio fianco una giornalista molto impegnata, che per saggiare la mia sensibilità mi ha chiesto: “Lei come pensa di aiutare i poveri?”. Bella domanda. Cosa posso dire che abbia senso? La guardai e con malcelata soddisfazione gli risposi che per l’occasione avrei preso in prestito quanto affermato da un certo L. Hancock (non so chi sia, ma mi era piaciuto quello che sull’argomento aveva scritto): “Il miglior modo per aiutare i poveri e non diventare uno di loro”. In ebraico “vita” si dice “chaim”. È un plurale. Letteralmente significa “vite”, forse perché la vita non è mai una sola. Tutti ne abbiamo vissuta o ne viviamo più di una. In relazione alle diverse fasi della vita, da qualche parte devo aver letto che “la vita si potrebbe dividere in: rivoluzione, riflessione, televisione. Si comincia con il voler cambiare il mondo e si finisce con il cambiare i canali”. Ancora mi meraviglio che nel televisore non appaiano le sagome dell’ultima immagine presente al momento dello spegnimento dell’apparecchio, seguita da un puntino bianco al centro dello schermo…
Giuseppe Selvaggi (poeta e scrittore pugliese)