Il giorno che Nunzia e io ci siamo sposati gli asini volavano. Mia suocera me lo diceva sempre: “Voi vi sposerete quando gli asini volano”. Da quanto tempo fossimo fidanzati avevamo perso il conto, eravamo bambini quando ci eravamo “promessi” per gioco. Io l’avevo vista crescere, i suoi seni formarsi e i suoi fianchi modellarsi. Era la ragazza più bella del paese, anzi del mondo, e ci volevamo tanto bene. Non che ci mancasse il desiderio di mettere su famiglia, ma per sposarsi bisogna almeno avere un letto dove dormire, e noi eravamo così poveri che oggi sembra impossibile siano esistiti tempi tanto duri.
Il prete diceva “Quando la domenica venite nella Casa del Signore mettetevi almeno le scarpe”, ma le scarpe si consumano, e noi le tenevamo per l’inverno. In campagna si andava a piedi nudi, oppure si stava in piazza ad aspettare il ‘caporale’ che distribuiva il lavoro, quando c’era. Lei passava per andare a prendere l’acqua alla fonte, mi sorrideva e il sole brillava ancora di più. Il sabato andavo a casa sua a trovarla e stavamo a parlare in cucina con sua madre che brontolava perché la figlia tanto bella e richiesta -anche dai signori- si era innamorata di me che non avevo alcun mestiere per mantenerla.
“Anch’io diventerò un signore”, dicevo, e Nunzia sorrideva con gli occhi che le brillavano, annuendo con la testa.
Un giorno, erano i primi di agosto, Domenico tornò al paese. Fu un avvenimento, perché arrivò con una Fiat 600 tutta polverosa. Domenico era andato via dal paese due anni prima, “…al Nord, a Milano, dove c’è lavoro”, e scriveva alla madre una volta ogni quindici giorni. La donna si faceva leggere le lettere dal prete, poi tornava a casa tenendosi stretta la lettera al petto.
“Mio figlio lavora in fabbrica”, diceva, “e ha il rasoio elettrico per farsi la barba”.
Nessuno sapeva com’era fatto il rasoio elettrico, ma al Nord poteva accadere di tutto.
Domenico nel pomeriggio venne al Salone per farsi ritoccare i capelli. Indossava la camicia bianca e portava i gemelli d’oro ai polsini. Mentre, accomodato sulla poltrona del barbiere con Vincenzo che gli girava intorno sforbiciando, parlava con modi da persona che aveva girato il mondo, noi eravamo lì ad ascoltarlo, e chi non poteva entrare nel negozio se ne stava sulla porta allungando il collo per sentire. Si lamentò delle strade polverose che gli avevano sporcato l’automobile -cose che al Nord, a Milano, non succedevano-, raccontò del lavoro in fabbrica, delle otto ore con indosso una tuta blu che sembrava un capo di sartoria. Neanche una macchia doveva insudiciarla, altrimenti sarebbe andato subito al suo armadietto per cambiarla, non come alcuni di noi che avevano pezze al ginocchio di colore diverso dalle brache.
“Com’è il rasoio elettrico?”, gli chiese qualcuno.
“Sciocchezze”, rispose con noncuranza Domenico, “la lavatrice elettrica, questo è importante per un uomo che vive solo. Lava da sé la biancheria,” strizzò l’occhio con fare complice, “…poi si trova sempre chi è pronta a stirarla”.
Domenico viveva in un grande palazzo condominiale che la fabbrica del Nord, a Milano, aveva costruito per i suoi operai. Un appartamento con i servizi in casa, l’acqua calda e una vasca per fare il bagno. Lui l’appartamento lo riscattava un tanto al mese. “Poche lire che mi vengono trattenute dalla busta paga, e un giorno l’appartamento sarà mio.” Così venimmo anche a sapere che ogni mese Domenico prendeva la paga. Dodici paghe all’anno, anzi una in più: la tredicesima.
“Il rasoio elettrico com’è?” continuò a chiedere qualcuno. Ma lui era preso nel racconto delle meraviglie che si trovavano al Nord, a Milano. Storie e avventure che ci facevano sgranare gli occhi per la meraviglia.
Quando Domenico se ne andò, dopo un paio di settimane, io avevo preso la mia decisione e ai primi giorni di settembre partivo per il Nord, per Milano, con un treno che a ogni stazione si riempiva sempre di più: gente come me, giovani e meno giovani, con mogli e figlioletti al seguito. Tutti erano pronti a lottare per conquistarsi una vita lontano dalle privazioni.
Io che avevo fatto il bracciante senza arte né parte divenni un muratore. Prima garzone, poi operaio, poi cottimista. Lì non c’erano orari che tenessero: più muri innalzavo, più soldi prendevo. Cominciavo all’alba e terminavo al tramonto, stordito dalla stanchezza, ma con il pensiero fisso a Nunzia e al nostro matrimonio. I ragazzi che venivano dal Sud ora mi chiamavano “Maestro”, sapevo lavorare di staggia e di cazzuola, avevo un mestiere, ero qualcuno.
Poi un giorno scrissi a Nunzia. “Prepara le carte, torno per sposarti. Ho la casa, c’è la lavatrice elettrica e il frigorifero”.
Al paese tornai con la mia Millecento grigia durante le ferie di agosto e Nunzia era più bella di quando l’avevo lasciata. Il paese era quasi vuoto, c’erano solo vecchi e bambini. Tutti quelli che potevano lavorare erano già partiti per il Nord, per Milano, e al nostro matrimonio non venne molta gente, ma fu lo stesso come avevamo sempre sognato e finalmente anche mia suocera era orgogliosa di me. Disse che per la nostra prima notte ci aveva preparato il letto grande con le lenzuola del corredo e che lei sarebbe andata a dormire dalla sorella.
Quando fummo soli ci sentimmo impacciati. La lontananza ci aveva fatto perdere confidenza e eravamo troppo imbarazzati per abbracciarci. L’avevamo desiderato da sempre e ora stavamo lì seduti sulla sponda del grande letto senza guardarci. Chi avrebbe dovuto per primo allungare una mano? D’un tratto Nunzia si alzò e disse che andava a togliersi il vestito da sposa. Anch’io dovevo spogliarmi e m’impigliai con i bottoni della camicia, la cinghia dei pantaloni, i calzini. Poi Nunzia rientrò nella camera e si avvicinò. Fu come se entrasse la brezza che accompagna il tramonto quando i profumi si fanno intensi, l’odore dell’acqua che sgorga dalla fonte e batte sulle rocce, il profumo dei campi nei pomeriggi d’estate e quello delle zagare sotto il cielo stellato di primavera, tutto questo invadeva la stanza e si congiungeva intimamente alla bellezza della mia sposa. La guardavo incantato e aspiravo profondamente ogni particella odorosa che stillava dalla sua pelle. Lei doveva avere notato il mio incantamento perché rise. Tolse da dietro la schiena il pugno chiuso e mi mostrò una piccola boccetta nel palmo della mano.
“E’ un profumo” disse, “il regalo di nozze della mia amica”.
D’un tratto tutte le timidezze e gli imbarazzi scomparvero. Rapiti in quell’incanto le nostre mani si mossero con naturalezza e per la prima volta ci baciammo e ci stringemmo.
Eravamo ancora svegli all’alba e Nunzia non finiva di inumidire un polpastrello e passare il profumo nelle pieghe del braccio, dietro le orecchie, sui polsi.
Due giorni dopo partivamo per il Nord, per Milano, e fu solo a metà del viaggio che Nunzia mandò un piccolo strillo.
“Il profumo, ho dimenticato il mio profumo!”.
Certo non ci fu bisogno di altro profumo per le nostri notti, ma quella piccola bottiglia di essenza, dopo tanti anni, è ancora nei nostri cuori e l’aroma è rimasto nelle nostre narici.
Profumi ne ho regalati tanti a Nunzia e così hanno fatto i nostri tre figli a ogni anniversario di matrimonio e ogni volta Nunzia ha scosso il capo: “Non è quello”.
Ecco la nostra storia. Ora sono un imprenditore di successo e posso comperare alla mia amata tutti i profumi del mondo, ma quell’essenza della nostra prima meravigliosa notte di nozze, una fragranza di Marca italiana che non aveva la pretesa di confrontarsi con quelle francesi, acquistata nella bottega di un paesino del Sud dove si vendeva di tutto, è ancora la più desiderata…
GIORGIO DALLA VILLA
MUSEO DEL PROFUMO
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