Non è nato in una “favela”, ma ha sicuramente un’ottima “favella”. Padre Daniel Mauricio Filho, quarantenne brasiliano di Blumenau (una città di origine tedesca) è un brillante sacerdote di origine italiana (lombarda da parte di madre e siciliana da parte di padre), che da otto mesi è responsabile della Parrocchia dei Santi Martiri Nazaro e Celso, a Quarto Oggiaro. “Ma in Italia, sempre come sacerdote, sono stato sei anni a Padova (seguendo dei gruppi giovanili) e due anni a Firenze, in una chiesa storica vicino a Ponte Vecchio”, esordisce, precisando e sorridendo, il religioso sudamericano. “Prima di abbracciare il mio percorso di fede ho studiato per quindici anni in Brasile, negli Stati Uniti e a Roma. Ho lasciato la mia famiglia, la mia fidanzata e un lavoro promettente in banca, per seguire Gesù, grazie a un altro sacerdote, che venne a portare la sua testimonianza nella scuola brasiliana in cui studiavo. Fra le sue diverse esperienze, una mi colpì particolarmente: nel corso di un suo viaggio dall’Italia al Brasile conobbe una bellissima ragazza, una modella. La giovane gli confessò che pur avendo tutto dalla vita non era felice. Le mancava il senso della propria esistenza, senza il quale niente di quello che hai può riempirti e che questo senso pieno solo Gesù poteva darti. Sentendo questo racconto pensai: ho sempre voluto fare del bene alle persone. E quale bene è più grande che aiutarle a scoprire il senso della propria vita?”.
Padre, com’è secondo Lei l’area di Quarto Oggiaro? Storicamente, la zona non è molto ben vista dai milanesi ed è associata a degrado e delinquenza, quest’ultima sia nostrana che (diciamo così) di importazione…
“Purtroppo, il quartiere gode (si fa per dire) di una fama un po’ negativa, non solo a Milano. È formato essenzialmente da due parti: la prima, più antica e storica (di cui fa parte la Parrocchia), corrisponde all’ex borgo di Musocco, mentre la seconda è formata dai palazzoni popolari che sono stati costruiti negli anni ’60, per ospitare le persone provenienti dal Sud d’Italia, che dopo la Seconda Guerra Mondiale cercavano lavoro al Nord. Ed è proprio in questo periodo che sono cresciute, appunto, anche la delinquenza e il degrado. Oggi il quartiere è etnicamente variegato; sta cambiando completamente faccia e penso che fra qualche anno non sarà più una zona disagiata della città, ma un luogo abitato da moltissime famiglie giovani”.
Lei come si è integrato in questo ambiente? Ci racconta quali sono state le difficoltà e quali sono gli aspetti positivi di lavorare in un oratorio?
“Io mi sento davvero tanto integrato con l’ambiente della Parrocchia, soprattutto per la missione che svolgo con i giovani. Per adesso non ho molte storie da raccontare e in questo primo periodo mi sono concentrato soprattutto sulla conoscenza della realtà. Penso che l’oratorio sia una realtà fondamentale, non solo per la Chiesa, ma per tutta la comunità. È un luogo dove i ragazzi possono trovare un posto protetto in cui divertirsi e anche crescere umanamente. E nonostante il poco tempo finora trascorso qui, vedo già quanto hanno a cuore la realtà dell’oratorio, curandolo come se fosse casa loro”.
A Suo parere, quanto lo Sport può essere utile ai giovani, con o senza problematiche evidenziate?
“Secondo me, lo Sport non è solo questione di esercizio fisico, ma di educazione. Ci insegna a come vivere nella vita: e cioè che c’è bisogno di sacrificio, disciplina, inclusione, spirito di gruppo, entusiasmo e passione per poter andare avanti. In questo senso, faccio mie le parole di Papa Francesco ai partecipanti al Convengo Internazionale sullo Sport, del 30 settembre di due anni fa: “La Chiesa è vicina allo Sport perché crede nel gioco e nell’attività sportiva come luogo di incontro fra le persone, di formazione ai valori e di fraternità. Per questo lo Sport è di casa nella Chiesa, specialmente nelle scuole, negli oratori e nei centri giovanili”.
Che opinione ha del fenomeno dell’immigrazione a Milano?
“Penso che dobbiamo fare chiarezza su questo tema complesso, per non fare di tutta l’erba un fascio, sia in senso positivo sia in senso negativo. Il fenomeno delle migrazioni, forse, è quello più antico del mondo. Ricordiamoci che i primi popoli che abitavano il nostro pianeta erano nomadi e il loro muoversi da una parte all’altra era motivato dalla necessità di sopravvivenza. La migrazione, come fenomeno preso in sé stesso, è qualcosa di positivo. Ci sono alcuni eventi, come sappiamo, che sono intrinsecamente cattivi, ad esempio i reati. Possiamo sempre trovare mille scuse per giustificarci, ma in fondo sappiamo che quello che stiamo facendo è qualcosa di negativo. Poi ci sono altre cose che sono di per sé buone, come l’amore. Quello vero non può che essere buono, anzi è la forza che muove il mondo. Altri fenomeni sono buoni in sé, ma possono diventare cattivi a seconda delle circostanze: fare l’elemosina è un gesto molto bello, ma se so con certezza che quella persona a cui sto dando del denaro lo userà per fare del male al prossimo, questo gesto, di per sé buono, diventa cattivo. Dobbiamo interrogarci, quindi, su quali siano le condizioni che fanno diventare buono o cattivo il fenomeno dell’immigrazione”.
Alla luce della Sua enorme esperienza, al riguardo, di migrante (diciamo così) e di religioso, secondo Lei è possibile dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione, senza condizionamenti emotivi?
“A volte il fenomeno migratorio può farci paura perché pensiamo di perdere quello che è nostro, accogliendo quello che appartiene a un altro, ma non è così. Il fatto di accogliere quello che di buono ha la tua cultura dovrebbe arricchire la mia. Nella sua lettera per la Giornata Mondiale del Migrante del 2023, Papa Francesco ha pronunciato una frase che ha attirato la mia attenzione: “Oltre al diritto di migrare c’è il diritto a non migrare”. Il Santo Padre voleva dire che oggi le persone non sono libere di scegliere se migrare o meno, ma sono costrette a farlo, a causa delle diverse circostanze, da quelle economiche a quelle culturali, per finire, buon ultimo (ma non per importanza) alla fuga da una guerra. Non bisogna dimenticare, inoltre, la domanda di manodopera. Il lavoro manuale, molte volte scarsamente retribuito, viene rifiutato dalla manodopera locale, nei Paesi sviluppati, in costante ricerca di salari adeguati, dal punto di vista dei costi. Allora quei popoli, pronti a tutto per uscire da una vita di stenti e spesso di persecuzione, vanno a sostituire la manodopera autoctona. Si arriva, purtroppo in molti casi, quasi ad una replica della tratta degli schiavi, L’esistenza del traffico dei migranti è una realtà che non possiamo ignorare. Tornando alla domanda, penso che sia molto importante l’integrazione, quella vera, per non cadere nello sbaglio di creare dei ghetti. Una realtà che non viene integrata in un’altra già esistente, infatti, tende a fortificarsi e diventarne antagonista. Però, per riuscire nell’obiettivo della reale integrazione sono necessarie, direi indispensabili, due condizioni: una cultura forte che accoglie e la perdita della paura di accogliere, che è causata dal sofisma di chi pensa che accogliendo e integrando abbiamo solo da perdere. Per poter accogliere un’altra identità e integrarla in quella propria è necessario soprattutto aver ben chiaro quale sono i valori che ci legano. L’Europa, per molti secoli, è stata la culla della cultura Occidentale. Oggi non è più così. Secondo me stiamo perdendo i valori umani e religiosi che ci legavano in quanto Continente. Questo indebolisce la nostra cultura, con il conseguente indebolimento della nostra identità. Ovviamente, quando qualcuno con un’identità forte, giusta o sbagliata che sia, deve confrontarsi con la nostra, non trovandone un punto di stabilità e coerenza, rimane attaccato alla sua. La nostra cultura europea è formata anch’essa dall’intreccio di diverse culture. Pensiamo proprio alla realtà di Milano, che durante il Medioevo era uno dei punti di snodo più importanti fra Occidente e Oriente, perché era il passaggio delle merci che arrivano da Venezia ed erano destinate ai Paesi nordici. Questo semplice fatto l’ha resa una città imprenditoriale, da cui oggi l’intero Paese ricava ricchezza economica e culturale”.
A proposito di Milano: com’è vista dal Brasile?
“Tanto Milano, come l’Italia intera, sono viste dal Brasile come una bellissima realtà. Gran parte delle nostre città del Sud si sono formate grazie alle migrazioni europee (e italiane) del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Quindi, l’Italia e Milano sono percepite da molti come la propria casa d’origine, dove un giorno si vorrebbe tornare almeno per farle una visita. In questo senso, essendo di origine italiane (e per metà lombarde) mi sento molto fortunato ad essere tornato qui per vivere e lavorare”.
Un’ultima domanda, Padre, prima di chiudere. Si parla tanto di crisi delle vocazioni, i giovani sembrano essere sempre meno attratti dalla fede. Lei che ne pensa? In Una città come la nostra, tutta impegnata a correre dietro ai soldi e alla carriera, è ancora possibile praticare la fede e dare risalto ai valori umani?
“Oggi viviamo un periodo non solo di crisi delle vocazioni, ma di crisi dei valori umani in generale. La tecnologia ha portato tanti benefici, ma anche qualche effetto collaterale. Corriamo freneticamente dietro al “come”, ma spesso ci dimentichiamo del “perché”. Ci affanniamo a lavorare anche dodici ore al giorno, per pagarci la vacanza dei sogni e alla fine la vacanza dei sogni si trasforma in un incubo perché non siamo riusciti a scattare quella foto perfetta da pubblicare su qualche canale social. Dovremmo recuperare, invece, il sano riposo giornaliero, che ci permette di fermarci e riflettere. Poco tempo fa ho promosso un incontro con un gruppo di adolescenti della Parrocchia, in cui ho chiesto loro di riflettere per trenta secondi in silenzio, riguardo a una domanda che avevo posto. Mi sono sorpreso perché, per loro, quei trenta secondi sembravano un’eternità e dopo soli dieci secondi si muovevano già con insofferenza ed inquietudine. Se perdiamo la capacità di riflettere perdiamo conseguentemente i valori sui quali si basano le nostre scelte e diventiamo dei semplici robot, che obbediscono ad un impulso esterno. Vorrei proprio che facessimo attenzione a questo pericolo, perché, chi non riflette e non pensa diventa vittima (per colpa sua) della dittatura del pensiero unico. Se perdiamo la capacità di riflettere diventerà molto più difficile creare un rapporto con gli altri, perché ci dedichiamo al fare e non all’essere. E se perdiamo la capacità di rapporto, cioè anche di ascolto, come potrò ascoltare quella voce che sottilmente mi dice di seguirla? Sono convinto che Dio continui a chiamare i giovani a seguirlo, ma sono pochi quelli che ascoltano la Sua voce. Questo accade non solo per la vocazione sacerdotale o consacrata, ma anche per quella matrimoniale. I matrimoni diminuiscono perché non siamo capaci di ascoltare, riflettere e fare una scelta che duri nel tempo”.
Ermanno Accardi e Gianna Avenia