E’ l’unico milanese doc dei Mo’ Better Swing, il gruppo musicale che ha fondato nel 2010 insieme al suo amico Mario Belluscio. E da sempre vive a Milano, la sua città natale e il luogo in cui si riconosce naturalmente, da vero artista metropolitano, nonostante le sue numerose sortite lavorative italiane ed estere. Mauro Bazzini, 54 anni da compiere il prossimo 28 maggio, raffinato chitarrista e “leader senza volto” dell’elegante band meneghina, ha fin qui percorso il cammino della sua vita personale e professionale fra il Giambellino e il Gratosoglio. Studia e suona il suo strumento da quand’era un bambino, frequentando fin da ragazzo gli scantinati umidi in cui hanno provato e riprovato i loro pezzi i complessi musicali che ha riunito e dei quali ha fatto parte. “L’idea del frontman irriconoscibile, nascosto in pubblico da una maschera, è nata per dare maggiore risalto alla bravura del gruppo”, rivela Bazzini. “L’esordio ufficiale di questa nuova tendenza comunicativa è avvenuto con l’uscita, il 12 aprile scorso, di “Swinky”, il nostro nuovo disco, che fonde, anche nel titolo, i generi swing e funky, con qualche incursione anche nel rap. I testi, tutti in italiano, affrontano importanti temi di attualità, con analisi spesso taglienti e comunque con leggerezza, sarcasmo e ironia. Il messaggio arriva immediatamente all’ascoltatore, che poi lo interpreta ovviamente a modo suo”. Bazzini, sposato e con un figlio di 11 anni, è anche un grande appassionato di tennis (“Sono un tifoso sfegatato di Roger Federer e lo sono stato, in passato, anche di Adriano Panatta”, confessa), di cinema e di letteratura. “E ho amato tanto anche la politica”, aggiunge, “ma il suo progressivo decadimento mi ha allontanato da questa passione. Preferisco coltivare le buone amicizie, che mi danno sicuramente più soddisfazione”. Da milanese doc (soggetti sempre più rari, oggi, nella nostra città), Bazzini è una delle persone più adatte a tracciarne un profilo, cogliendone gli aspetti più importanti del suo costante cambiamento, di metropoli perennemente in movimento. “Trovo che Milano abbia ben sfruttato, da qualche anno a questa parte, le occasioni che le si sono presentate”, afferma. “Penso soprattutto ad Expo e ai suoi effetti collaterali, ma anche, azzardando un’analisi di carattere sociologico, che sia stata davvero unica nell’affrontare la sfida delle emergenze: dall’immigrazione alla lotta al malaffare e alla povertà. Intendo dire che certe sfide non sono senz’altro vinte e si può (e si deve) fare meglio, ma che Milano abbia comunque saputo gestirle, finora, come nessun’altra grande città in Italia”.
Tu lavori nel mondo della musica, un osservatorio privilegiato sulla città. Ma è davvero privilegiato, questo osservatorio? Qual è, a tuo avviso, lo stato dell’arte, riguardo la musica, qui da noi? E quali contributi ha portato, secondo te (se lo ha portato) lo sviluppo della Rete e dei Social Network?
“Musicalmente Milano è una città con un potenziale enorme, che non riesce a tradursi appieno in una vera e propria proposta artistica per il pubblico. Il patrimonio di competenze del panorama milanese, in tutti i generi, è davvero impressionante. La città sconta, però, la più generale difficoltà di divulgazione della cultura in questo Paese, la mancanza di sostegno pubblico e l’assoluta dipendenza dall’impresa privata, che si traduce quasi sempre in due diversi aspetti: da un lato la ricerca del profitto (chi investe lo fa per avere un immediato rientro sul piano economico, anche a dispetto del puro valore artistico) e dall’altro il rischio che la musica funga da semplice corollario ad altri contenuti (la musica come mero “contorno” di eventi commerciali o benefici). Beninteso che nel secondo caso l’operazione è comunque meritoria e spesso complessivamente interessante, ma la musica, di per sé, non è la protagonista”.
Movida e musica all’aperto: come stiamo a Milano?
“Mi sembra che ci si trovi di fronte all’eterna lotta tra due diverse esigenze: la quiete pubblica e la voglia di evasione. Secondo me si risolve soltanto con una comunicazione efficace delle contrapposte istanze, che miri all’accettazione di regole universalmente accettate”.
Ha ancora senso parlare di musica milanese? Non è un po’ fuori dal tempo ascoltare canzoni in dialetto meneghino?
“Una cosa è la canzone dialettale meneghina classica, l’altra, invece, quel filone musicale che ha sempre parlato delle trasformazioni della società milanese alla prova della sfida dei tempi. In questo secondo caso penso soprattutto alla Milano di Jannacci, di Gaber, delle canzoni della “mala”, dei canti della Milano periferica e operaia. Questo secondo filone è più vivo che mai, grazie alla nuova scuola milanese di grandi artisti come Carlo Fava, Folco Orselli, Claudio Sanfilippo e molti altri, che fino a poco tempo fa avevano nella “Salumeria della Musica” di Massimo Genchi la loro casa-madre”.
Milano ha sempre avuto un respiro più ampio dei suoi confini. Tutto quello che la riguarda interessa sia a livello nazionale che internazionale. Pensi che sia in grado, anche oggi, di interpretare questo ruolo? Oppure è stata “colonizzata”, nel senso che questo interesse esterno ha prodotto investimenti economici e finanziari che hanno portato imprenditori, finanzieri e banchieri ad impadronirsene?
“Beh, Milano è sempre stata feudo della grande finanza, che ne ha sempre condizionato la vita. Penso a Enrico Cuccia, alla commistione tra affari e politica degli anni del Craxismo e del successivo Berlusconismo. Ora la finanza è molto più globale e tutto reagisce di conseguenza, ma Milano è sempre stata “vicino all’Europa” (come cantava Lucio Dalla, che continuava, non a caso, con “Milano che banche, che cambi…”) e non può sfuggire alla sua dimensione internazionale”.
Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano?
“Io, come sai, ho un’idea molto radicale sul fenomeno. Non nego che il mancato governo del processo, ma soprattutto la sua strumentalizzazione, sia causa di disordine sociale, ma preferisco vedere l’immigrazione come un fenomeno epocale inevitabile, frutto anche e soprattutto dello sfruttamento di risorse e popoli che noi occidentali abbiamo perpetrato nel passato e che continuiamo a perpetrare nel presente, programmandolo anche per il futuro. Quello che vediamo come effetto collaterale deleterio è l’emarginazione e la lotta tra poveri. Milano però, ancora una volta, ha saputo mettere in campo progetti che le sono valsi il plauso internazionale e che sono stati copiati da altre realtà, fuori e dentro l’Italia. Ha reagito mettendo in campo sinergie tra diversi soggetti (pubblici e privati) e ha retto la sfida meglio di altre città”.
Per concludere, Mauro: Come vedi il futuro di Milano, in relazione anche all’attuale situazione italiana e internazionale?
“Ho l’impressione che nel bene e nel male (ma soprattutto nel bene) Milano continui a fare corsa a sé. Come sempre anticipa tendenze e reagisce con prontezza ai cambiamenti. E’ una città globale e lo sarà sempre di più. A mio avviso manca un po’ di coraggio in alcune scelte di politiche sociali, ma in questo risente della cronica incapacità della politica italiana di pensare a un futuro che vada oltre la prossima scadenza elettorale. Tutto sommato, però, si è meritata, specie negli ultimi dieci anni, il rango internazionale che tutti le riconoscono”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)