È tornato in Italia per un breve giro di presentazioni del suo libro “La partita dell’Euro: Italia-Germania tra cronaca e storia” (Casa Editrice Egea, 2022), che comprendeva una tappa milanese alla Casa della Cultura di via Borgogna. Ed è li che ci siamo ritrovati, dopo qualche anno dal nostro ultimo e piacevole incontro a casa di amici comuni. Mauro Battocchi è l’Ambasciatore d’Italia in Cile. In oltre 25 anni di carriera, ha servito il nostro Paese a Bonn, Tel Aviv e San Francisco, svolgendo incarichi focalizzati in materia economica. È stato anche responsabile per gli Affari istituzionali internazionali del Gruppo Enel e successivamente Consigliere diplomatico presso il Ministero dello Sviluppo Economico.
Caro Mauro, partiamo subito dal nostro ritrovarci qui a Milano e su queste pagine, cioè la presentazione del tuo libro. Tu sei stato testimone diretto di una delle campagne diplomatiche più complesse che il nostro Paese abbia condotto negli ultimi decenni: il negoziato che tra il 1996 e il 1998 ha portato l’Italia nel nucleo dei fondatori della moneta unica. Un’esperienza, questa, che poi ti ha portato a scrivere un vero e proprio racconto, fatto non soltanto di numeri, ma anche di grande umanità, su questo capitolo cruciale della nostra storia…
“Con il mio libro accompagno i lettori attraverso un periodo cruciale per la nostra storia, cioè la seconda metà degli anni Novanta. Un’epoca in cui si ridefinivano gli assetti di potere a livello internazionale e l’Italia era in uno stato post-traumatico, dopo la grande crisi del 1992 che aveva posto fine alla Prima Repubblica e ci aveva fatto sfiorare la bancarotta. Il Trattato di Maastricht ridisegnava una nuova Europa intorno a una valuta comune e l’Italia rischiava di rimanerne fuori. Ho vissuto quel tempo all’Ambasciata a Bonn, la mia prima sede diplomatica all’estero, con la guida del grande Ambasciatore Enzo Perlot. Fu un periodo dominato da un senso di tensione e di minaccia; racconto lo sforzo collettivo per farci rimanere parte del nucleo dell’Europa, cercando di restituire le sensazioni e le emozioni di quei giorni. Il palcoscenico è quello descritto dal romanziere John Le Carré, la Bonn piovosa coi passaggi a livello sempre chiusi. Nel racconto mi piace evidenziare il contributo concreto di tanti a quello che fu un grande successo per l’Italia, in particolare quello dell’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi, che in quegli anni era ministro del Tesoro, sempre affiancato dall’allora direttore generale Mario Draghi. Con la sua credibilità personale da ex Governatore della Banca d’Italia, Ciampi fu spesso decisivo, come quando alzò il telefono per strigliare gli ex colleghi governatori che volevano dare “insufficiente” all’Italia nella pagella finale, rischiando di farci escludere”.
L’Euro ha vissuto alti e bassi e l’opinione pubblica non è sempre stata favorevole. A vent’anni dall’introduzione della moneta unica europea pensi che le aspettative di coloro che hanno lottato per portarci nell’Euro abbiano trovato conferma?
“Di certo l’Euro non è la panacea che risolve tutti i problemi, ma è di sicuro un’ancora di stabilità nel mare tempestoso dei mercati internazionali. Basta guardarsi intorno e vedere le intemperie che hanno attraversato e stanno attraversando vari Paesi emergenti, che non hanno il lusso di avere in tasca una valuta internazionale robusta e rispettata. Questa era in fondo la ragione ultima del perché si percepiva all’epoca che bisognava entrare nell’Euro a tutti i costi. Lo dice bene Ciampi in una frase pronunciata nel momento più buio della campagna per l’Euro, che riporto all’inizio del libro e che anticipa di quindici anni il “whatever it takes” di Draghi per salvare la moneta unica. Oggi, dopo il dramma della pandemia, si può comprendere chiaramente il valore di quello sforzo: gli acquisti dei titoli italiani della Banca Centrale Europea ci permettono di sostenere un debito pubblico molto elevato. L’Europa ha deciso di indebitarsi collettivamente, in quanto Europa, per fornirci quelle risorse di cui abbiamo bisogno per investire nel nostro futuro, grazie al PNRR”.
Parliamo del tuo ruolo diplomatico e consolare. Quali sono le esperienze che ricordi più volentieri e che ti hanno formato, dal punto di vista umano e professionale?
“Servire la Repubblica Italiana in diversi angoli del mondo è un’esperienza che mi riempie ogni giorno di orgoglio e mi motiva a fare meglio e di più. Sono molto grato alla Farnesina per le opportunità che mi ha concesso, dalla Germania a Israele, dalla California al Cile. Ogni sede diplomatica e ogni incarico romano, tra una missione estera e l’altra, hanno proprie specificità e ti stimolano a reinventarti ogni giorno. Certo, quando si deve lasciare un Paese si abbandonano nuovi amici e tante certezze, ma c’è poi l’adrenalina di rimettersi in gioco da qualche altra parte, in modi che sono sempre imprevedibili. Così, dopo la Bonn dei semafori rossi nella nebbia e del negoziato sull’Euro fui proiettato nel Medio Oriente che si vedeva sfuggire la prospettiva della pace col fallimento del vertice di Camp David, nel 2000, e ripiombava nella violenza di una seconda Intifada. Forse un giorno scriverò anche di quelle vicende”.
Riguardo alla tua attuale attività di Ambasciatore in Cile, quali sono (se ci sono), secondo te, i punti di contatto e condivisione tra l’Italia e il Paese sud-occidentale americano?
“Ci separano 12.000 chilometri, ma Cile e Italia sono vicini emotivamente. Molti cileni e italiani ricordano l’aiuto che la nostra Ambasciata diede a centinaia di perseguitati dal regime militare di Pinochet fra il 1973 e il 1975 e quindi l’asilo concesso a migliaia di rifugiati. Consiglio a tutti di vedere il film di Nanni Moretti “Santiago, Italia”, che documenta in maniera commovente quelle vicende. Oggi i nostri Paesi sono uniti da un significativo flusso di investimenti produttivi, da un commercio in grande crescita e da una comunità di quasi 75.000 oriundi italiani che rivestono posizioni chiave nella società cilena, dalla politica all’economia, dalla cultura ai mezzi d’informazione. Invito i lettori a seguire le vicende di quel bellissimo Paese e a visitarlo non appena possibile. Dal deserto di Atacama alla Patagonia, passando per l’Isola di Pasqua, il Cile riserva esperienze incantevoli”.
Facciamo un passo indietro e torniamo a Milano, dove hai vissuto e studiato. Com’era e com’è cambiata, oggi, la nostra città? Anche, evidentemente, alla luce dell’emergenza sanitaria, politica, economica e sociale che purtroppo stiamo ancora vivendo…
“Milano ha avuto un ruolo unico e insostituibile per formarmi e farmi diventare la persona che sono oggi. Il corso in discipline economiche della Bocconi, che ti obbligava a fare tutti i (difficili) esami del biennio in tempo, pena l’espulsione, mi ha messo a dura prova. Ho sgobbato molto, ma sono anche cresciuto. Questa è in fondo la missione di Milano, una città che non si accontenta, che è orientata a far corrispondere i fatti alle parole. Ogni volta che ritorno, ritrovo con affetto luoghi e persone care e la vedo sempre più affascinante, nonostante il dramma della pandemia”.
In conclusione, Mauro, prima che tu salga sull’aereo che ti riporterà a Santiago. A tuo avviso, quanto cambierà (se davvero cambierà) il nostro stile di vita occidentale, dopo la pandemia? Finora siamo stati costretti a cambiarlo, visto che viviamo di relazioni, di incontri che diventano occasioni e progetti e invece negli ultimi due anni abbiamo dovuto organizzarci diversamente, con i social network e le video chiamate. E oggi, invece, che si comincia ad intravedere la fine di questa anomala situazione?
“Da cittadino del mondo mi chiedo anch’io che cosa rimarrà nelle nostre vite di questo pazzo biennio alle nostre spalle. La comunicazione virtuale è ormai entrata a pieno titolo nelle nostre vite e ci rimarrà. Credo che la chiave di volta sarà comprendere quale parte dovrà giocare la presenzialità nel nostro nuovo mondo. Siccome l’esserci in presenza non sarà più scontato, quando ci troveremo gli uni di fronte agli altri, in carne e ossa, saremo chiamati a mettere in quell’esperienze più significato, più emotività, più valore. Ogni stretta di mano dovrà essere un dono, com’è giusto che sia”…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)