Avevo quasi dodici anni ed ero in compagnia di mia madre e altre signore, quando la sentii parlare di un doloroso episodio: la morte di un uomo che si chiamava Luigi. “Poveretta, gliel’hanno ucciso ed è pure incinta del terzo figlio”, disse esattamente, riferendosi alla povera vedova. La giovane età non mi faceva comprendere appieno la gravità di quell’evento, ma l’espressione triste di Mamma, il modo con cui ne aveva parlato con le amiche e il fatto che quella persona avesse il mio stesso nome mi colpirono e lasciarono in me un segno indelebile. La cosa si rafforzò quando, sempre da Mamma, appresi che già orfano, a dicembre dello stesso anno, era nato il terzo figlio di “quel” Luigi. Si trattava del commissario di Polizia Luigi Calabresi, ucciso mercoledì 17 maggio 1972 alle ore 09.15 con due colpi sparati alle spalle, uno alla schiena e uno alla nuca (alla “sicurduna”, come si dice nel mio dialetto pugliese, ovvero all’improvviso e con vigliaccheria) in Via Francesco Cherubini, all’angolo con Via Mario Pagano, di fronte al civico 6, proprio nei pressi della sua abitazione, mentre si avvicinava alla Fiat 500 blu (di proprietà della moglie), con la quale si sarebbe recato al lavoro. “Giustizia è fatta”, dissero senza pudore alcuno, gli appartenenti alla sinistra, a quella sinistra politica. In seguito, approfondii quella vicenda fino a conoscerne tutti gli aspetti: quel poliziotto era un servitore dello Stato e non aveva fatto niente di male. Gli spararono alle spalle, quel giorno, ma già da tempo lo avevano ammazzato con la penna e la parola, pennivendoli, giornali, scrittori, attori e persone, diciamo così, di “cultura”. La storia di quel periodo è nota ai più, almeno a quelli che hanno la mia stessa età e pure agli onesti e ai curiosi, ma in ogni caso un breve riepilogo, a mio avviso, è doveroso. Il 1969 e l’anno in cui gli anarchici fanno esplodere diverse bombe (era insito nel loro modo di agire, nella loro ideologia). Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, alcuni criminali fecero esplodere una bomba. Morirono 17 persone, mentre 88 rimasero ferite. Le indagini si indirizzarono soprattutto sulla pista anarchica; fu fermato e interrogato anche Giuseppe Pinelli, ferroviere dichiaratamente anarchico, che morì il 15 dicembre 1969, poco prima della mezzanotte, ufficialmente gettandosi dalla finestra. In quel momento e in quella stanza della Questura di Milano c’erano cinque persone (come appurò l’inchiesta condotta dal giudice Gerardo D’Ambrosio): il tenente dei Carabinieri Savino Logreno e i brigadieri di Polizia Giuseppe Caracuta, Vito Panessa, Pietro Mucilli e Carlo Mainardi. Sulla porta dell’ufficio, ma nel corridoio, c’era il brigadiere dei Carabinieri Attilio Sarti. Nella stanza attigua, c’era il brigadiere dei carabinieri Giuseppe Calì e l’appuntato dei Carabinieri Giuseppe Di Giglio.
Da quel momento, alcuni giornali diedero inizio a una feroce campagna diffamatoria, nei confronti del commissario Calabresi: Avanti!, l’Unità, Vie Nuove, Lotta Continua. Quest’ultimo foglio lo minacciò apertamente per anni, affibbiandogli anche il soprannome di: “Commendator Finestra”. Dopo la nascita del figlio Mario (oggi noto e apprezzato giornalista), diverse testate, di quell’area politica e non, pubblicarono una vignetta nella quale il commissario insegnava al bambino come tagliare, con una piccola ghigliottina, la testa di un pupazzo con il simbolo dell’anarchia dipinto sul camiciotto. Giorgio Bocca scrisse di lui: “Un poliziotto cresciuto alla scuola della CIA, il servizio segreto americano”. Camilla Cederna, la persona che con i suoi articoli e il suo libro, più di tutti si è accanita su Calabresi, lo ha fatto anche dopo che questi fu ammazzato e ha continuato a farlo perfino dopo la pubblicazione della sua sentenza di assoluzione. Dario Fo, nella sua commedia/farsa, messa in scena nel 1971 e riproposta nel 1987 al Teatro Cristallo, dal titolo: “Morte accidentale di un anarchico”, lo chiamò “Il Commissario Cavalcioni”. Il settimanale L’Espresso, il 13 giugno 1971, pubblicò un manifesto contro il commissario Calabresi, accusandolo di essere stato il torturatore e l’assassino dell’anarchico Pinelli, firmato da ben 757 personaggi noti. Successivamente, fra questi, si pentirono d’aver apposto la loro firma soltanto Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana. Solo nel 2007, Eugenio Scalfari (uno dei firmatari) chiese scusa alla vedova Calabresi, dichiarando che quella firma era stato un errore. Giampaolo Pansa, invece, rifiutò di apporre la sua firma su quel documento, mentre Indro Montanelli difese pubblicamente Calabresi. Il 28 luglio 1988 Leonardo Marino, ex di Lotta Continua, a seguito di rimorsi di coscienza, confesserà e consentirà di fare luce sull’omicidio. Il commando che partecipò all’uccisione di Calabresi era composto da due persone: Ovidio Bompressi, l’assassino, e Leonardo Marino, che guidava l’auto utilizzata per la spedizione di morte. I mandanti furono Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Di quella triste e vergognosa vicenda se ne parla ancora. C’è chi dice che bisogna lasciar perdere, perché non sono più le stesse persone di un tempo: oggigiorno “quegli” uomini, che hanno ucciso o fatto uccidere, hanno una certa età, la pancia pronunciata, soffrono di prostata e hanno i capelli bianchi, o non li hanno proprio più. Lo stesso discorso vale per “quelle donne”, offese dai segni del tempo che passa impietosamente Una cosa, comunque e infine, è certa: hanno ammazzato e non hanno mai pagato abbastanza per tutto il male che hanno fatto. Per questo non potranno mai essere considerati, tutti, degli “ex”.
Assassini erano, sono e saranno. Sempre.
Luigi Dellomonaco (Generale dell’Esercito Italiano in congedo)
(Immagine di copertina tratta dal web)