Quando abitavo con la mia famiglia in via Vitruvio (avevo fra i 6 e i 12 anni) andavo a giocare ai giardinetti di via Benedetto Marcello, una grande traversa della strada che porta diritto alla Stazione Centrale, nella vecchia Zona 3 di Milano, quella che andava da Porta Venezia a Piazzale Loreto, dal lato Sud, appunto, della stazione ferroviaria, al lato interno della circonvallazione esterna, e dove si tiene da sempre uno dei più importanti mercati cittadini all’aperto. Lì, tra le poche panchine, le aiuole calpestabili, lo scivolo, la vasca di sabbia dove i bambini facevano i circuiti per le biglie, la pista di pattinaggio in cemento, che diventava quasi sempre un immenso campo di calcio, buono per giocarci sia in verticale che in orizzontale, e gli alberi, piantati ai margini del marciapiede, c’era lui. Grande, grandissimo, almeno così mi appariva a quei tempi, maestoso, con una schiena accogliente, dalla quale poter scivolare velocemente giù fino alla vasca di sabbia, e con le zampe anteriori possenti, che formavano una protettiva capanna, sotto la quale ripararsi per una pioggia improvvisa, o soltanto per sentirsi dentro qualcosa dalla quale guardare il movimento di persone intorno a quel gigante immobile. Lui era l’Orso Marcello, che con poco sforzo di fantasia da parte nostra aveva preso il nome dalla via dei giardini. Un orso-scivolo di cemento, un Orso Bianco, lo si riconosceva dal muso, più piatto e leggermente allungato, rispetto a quello del suo cugino Bruno, che era il simbolo, appunto, del nostro piccolo (ma neanche poi tanto, a pensarci bene) parco giochi della zona, costruito sopra una stazione sotterranea di pompaggio dell’acqua potabile. Quello strano animale, quando ai giardinetti non c’era nessuno dei miei familiari a controllarmi da molto vicino (a quei tempi qualche volta succedeva, senza particolari ansie e angosce) era la mia silenziosa “guardia del corpo”, un riferimento visivo e psicologico irrinunciabile, penso non soltanto per me, ma anche per tutti gli altri bambini dell’epoca, che insieme a me sono scivolati allegramente lungo quella schiena paziente come un’anziana governante…
Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, l’Orso Marcello è ancora lì, ma non gioca più con i bambini del quartiere. Dopo la chiusura della stazione di pompaggio dell’acqua, i giardinetti di via Benedetto Marcello sono stati trasformati per molti anni in un cantiere, che doveva riconvertire in un ragionevole lasso di tempo tutto lo spazio sotterraneo in un grande parcheggio per i residenti dei palazzi vicini. Dopo una lunga attesa, il garage è stato finalmente ultimato e i giardinetti comunque recuperati in superficie, molto diversi da prima, per abbellire il tutto, con finte collinette e alberi scelti appositamente per le loro radici a crescita orizzontale. Qualcuno, nel marasma lavorativo, si è ricordato di lui, ormai troppo vecchio e fragile per sopportare le continue sollecitazioni dei bimbi. Così, come un pensionato qualunque, con la sua posa malinconica, ha guadagnato un posto tutto suo ai giardinetti, a lato della costruzione di accesso al parcheggio, da dove continua a dominare il panorama e i bambini che lì sono tornati a giocare con i nuovi giochi spaziali e con i percorsi di arrampicata. Sono tornato a trovarlo da adulto, nella zona dove ho vissuto la mia infanzia, in quel luogo di prima immigrazione, pullulante di negozi di ogni tipo e percorso da un traffico incessante. Mi sono fermato davanti all’aiuola recintata che lo protegge e lo valorizza come un importante monumento cittadino, come un turista che ammira l’opera e cerca di leggere la scritta che l’accompagna. O forse come qualcuno che va al cimitero a trovare un parente o un amico, e si sofferma, raccolto, in silenzio, a pregare per lui. Sono stato subito rapito dai ricordi più belli e struggenti della mia infanzia serena, di quelle intere giornate passate a giocare ai giardinetti di via Benedetto Marcello. Delle continue scivolate sulla sua schiena forte e paziente, della ricerca di un riparo sicuro sotto le sue zampe anteriori perché all’improvviso era scoppiato un temporale e correre a casa non era più consigliabile, oppure significava bagnarsi completamente, come un pulcino, e poi chi la sentiva la mamma. Allora è meglio stare vicino a lui ancora un po’, passando da via Benedetto Marcello. Accanto a quel generoso, silente e protettivo gigante di pietra…
Ermanno Accardi