Amore. Dove sei? Palesati. Raggiungimi. Vieni da me. È il grido inespresso, sordo, muto, che attraversa e travalica l’intero testo di L’origine del mondo. Ritratto di un interno di Lucia Calamaro, 140 minuti di dialogo fitto e serrato condensati un uno spettacolo che dopo il debutto del 2011 ed essere stato rappresentato con successo sui palcoscenici di tutta Italia nonché vincitore di 3 Premi Ubu e del premio Franco Enriquez alla regia, è approdato ora al Piccolo Teatro Grassi dove si replica fino a domenica 24 novembre. Non più in scena da protagonista al debutto – la poliedrica Calamaro è anche attrice – ma in veste di autrice e regista, Lucia Calamaro ha non solo curato anche le scene, i costumi e il disegno luci, ma ha riadattato alla contemporaneità un testo che ora si avvale della presenza di Concita De Gregorio, al suo debutto in veste di attrice nel ruolo della madre, Mariangeles Torres, la figlia, e Carolina Rosi, la nonna, personaggi nei quali nel corso degli anni si sono avvicendate varie attrici. Tre straordinarie interpreti che mantengono i propri nomi e infiorano la recitazione con piccole improvvisazioni autobiografiche. È un male sottile, fisico anche se impalpabile, quello che attanaglia madre e figlia, nel buio della scena iniziale illuminata solo dall’apertura del frigorifero. Insonnia e fame turbano a entrambe una notte che di per sé non è mai foriera di quiete e di riposo. Bensì di pensieri, elucubrazioni, ipotesi sintetizzati in un’unica parola: depressione. Non una vera e propria condanna a morte, secondo Lucia Calamaro, ma una condizione di vita, questo sì, mutevole, che attraversa mente e corpo, una presenza crudele fisica anche se astratta dalla quale però ci si può liberare, uscire, aprire gli occhi su una forma di vita altra, da costruire, da inventare, da immaginare senza più perdere di vista quei piccoli momenti di trascurabile felicità che ne sono la chiave di volta. Depressione. La parola incubo viene finalmente pronunciata, analizzata non senza l’aiuto di molti validi autori, da Wittgenstein a Ossini, tanto per citarne un paio e dalla dottoressa/analista, tratteggiata da Mariangeles Torres, che offre spunti di autentica comicità. Perché qui si ride anche, oltre quell’atmosfera rarefatta ma incombente che attanaglia anima e corpo nei momenti della quotidianità domestica, come ci si veste per stare in casa o come ci si sveste per uscire, mangiare chissà cosa e perché dal momento che quella che si prova non è fame di cibo ma fame d’amore. E d’amore si parla, si sogna, si soffre. Anche davanti a un vaso di fiori finti da innaffiare per dare un senso almeno all’innaffiatoio, o a una lavatrice che non vuole fare il suo dovere fino in fondo anche se in realtà la colpa del suo malfunzionamento è la nostra. A fare irruzione in questo mondo disfunzionale è la nonna, ormai non più tanto sicura della propria forza, della propria voglia di combattere contro questo nemico più potente di lei anche se invisibile, che in una liturgia del rewind snocciola consigli, esortazioni, suggerimenti, implorazioni profusi nel corso degli anni a piene mani a una figlia che non è riuscita ad accettarli, ad accoglierli. Uscire non solo di casa ma soprattutto uscire da sé per sfondare il muro della solitudine e della claustrofilia, per scoprire che possiamo ritrovarci anche se ci sentiamo persi, che possiamo trovare il senso di una vita. Perché prima o poi la speranza di veder apparire qualcosa o qualcuno si tradurrà in realtà. Un lutto permanente? Il buio del frigorifero si spegne e si accende una luce piena, totale su un testo che è già di per sé un’autentica, interminabile seduta psicoanalitica. Un turbine di parole coinvolgente e avvolgente, dal quale le tre interpreti si lasciano avviluppare con convinta e totale adesione e complicità, fino ai calorosi e meritatissimi applausi finali…
Elisabetta Dente