All’asilo, quando mi chiesero che giorno della settimana volessi essere, risposi senza indugio: domenica. Oggi preferisco il sabato, che unito alla domenica fa due domeniche di seguito, due giorni di seguito prima dell’incubo del lunedì. Della domenica mi piace quella sensazione di giornata libera, l’assenza di gravità e degli obblighi di trovare risposte a do-mande appena accennate. La domenica non fa il solito rumore. Anche la città si riposa. L’apparente silenzio è la mia musica della domenica, silenzio interrotto quando passo davanti alla Chiesa Madre della nordica città che mi ospita, l’incanto del silenzio svanisce, bambini si rincorrono e gridando costruiscono il loro mondo. Hanno quella capacità di stare completamente in quello che fanno, pur cambiando gioco ogni cinque minuti. Com’è lontana la loro logica, fatta di piccole ribellioni e di domande che ci stupiscono, dalla nostra che si basa su calcoli ragionieristici. Nella vita ci sono tante tappe, mi piace molto quella breve tappa. Veder crescere i bambini conso-la l’invecchiare. Riflettendo, mi rendo conto che con tutta la loro fantasia e la loro gioia di vivere sono esseri scrupolosi, serissimi in quello che fanno, e questo mi piace. Deve dipendere dalla mia etica e dalla passione per il lavoro ben fatto. In fondo, credo di essere anch’io una persona seria. Noioso come una domenica passata senza entusiasmi in una grande città. Ogni domenica della mia infanzia è stata un giorno di festa. C’era la messa, il pranzo con i nonni, i pomeriggi a decidere cosa fare della piccolissima mancia settimanale che mi consentiva o il gelato esibito come un trofeo e consumato con gusto e parsimonia oppure il cinema. Andare al cinema era un’avventura, per risparmiare ero diventato amico del figlio della maschera, per intendersi quello che strappava i biglietti d’ingresso. Nei momenti di distrazione del proprietario, che stava come un mastino al botteghino, ci faceva entrare gratis facendo finta di distrarsi. Era un atto da commandos, rapidi, veloci e silenziosi per conquistare un posto sulle scomodissime poltroncine in legno. I film li guardavo due o tre volte fino alla nausea, e alla seconda proiezione mi stupivo ingenuamente del guerriero o dello sceriffo che nella proiezione precedente erano stati uccisi, mentre ora li rivedevo in azione. Miracoli del cinematografo, pensavo io. I soldi risparmiati venivano spesi per acquistare, detto in pugliese, “u spassa teimp”: semi di zucca, fave arrostite, castagne del monaco, lupini e l’immancabile gazzosa con la pallina colorata all’interno, bontà ante Mc Donald’s che si consumavano durante la proiezione. In certi periodi, improvvisati venditori esibivano in cassettine di legno le “pelose” (granchi di particolare bontà), che bollite diventavano rosse e venivano vendute a prezzi discrezionali e di simpatia. La domenica l’attenzione era tutta per noi bambini, Mamma mi vestiva con l’abito della festa, da piccolo ometto con giacca e cravatta, e poi dopo il rito della messa delle 10,00, quella dei ragazzi, dove vigeva una rigida e talebana separazione tra uomini da una parte e donne dall’altra con la velina in testa a esibire la propria fede. Ero ragazzo e i grandi, attenti a non farsi sentire o incuranti della nostra presenza, convinti che non capissimo nulla si esercitavano dopo la purifica-zione a fare nuovi peccati da confessare alla prima occasione, forse, spettegolando e facendo a fette tutti quelli che passavano. A noi ragazzi non interessava, dopo la messa c’era l’immancabile rito dello scambio delle figurine dei calciatori per completare l’album della Collezione Panini con le frasi di rito che ancora ricordo: ce l’ho, doppione, mi manca e quanto vuoi per Sivori. A mezzogiorno suonava la sirena, posta sulla torre maestra del “castello”, usata durante la guerra per allertare sull’avvicinamento di aerei nemici, annunciava e ancora oggi annuncia le otto del mattino e appunto il mezzogiorno. Dopo quell’avviso, che per noi rappresentava una specie di richiamo a tornare a casa, ci si apprestava al rito del pranzo domenicale, con un menù quasi sempre identico: pasta fresca, ragù alla barese, frutta fresca e in occasioni particolari i “sospiri”, o i dolci di mandorla. C’erano (quando c’era) la risata cristallina della bisnonna (Nonna Ziella), le battute di mio zio che era uno sciupafemmine (diceva lui), c’erano i racconti da me sempre richiesti di Nonno Natale, che aveva vissuto quasi tutta la sua vita all’estero, e i litigi tra i cuginetti. C’ero io, che mi mettevo al centro dell’attenzione, c’era mio padre di fronte a me, che passava da uno sguardo di rimprovero quando stuzzicavo mio fratello a un sorriso quando davamo sfogo alle nostre ingenuità fanciullesche, e poi mia madre e le mie zie, indaffaratissime in cucina. La televisione la si vedeva poco, c’era un solo canale e non trasmetteva tutto il giorno, allora non era invasiva e le conversazioni si facevano perché era quello l’intrattenimento. Ora che quel ragazzo con i calzoncini corti e i capelli nerissimi è un signore ben oltre la mezza età, le domeniche si susseguono una dietro l’altra, senza neanche che ci si accorga che è passata un’altra settimana. Stesse abitudini. Stessi pensieri. Sembrano passati anni luce da quelle domeniche d’infanzia. Quando torno al mio paese, la casa di mia nonna, che risuonava dei nostri giochi e delle risate, ora non è più nostra. Passando sotto i balconi di quel-la casa ricordo un camino, quasi sempre acceso, davanti al quale ogni tan-to mia nonna, che malgrado tutto conservava una rara bellezza e un sorriso rassicurante, tornava a sedersi, e di fronte a lei la poltrona vuota di mio nonno. Quante volte al mio ritorno da Milano sono stato tentato di salire le scale in pietra e bussare a quella porta. Se mi aprissero non troverei nulla di quello che ricordo: i mobili antichi (o vecchi, a seconda di come si guardano le cose), le stampe, gli arazzi “popolari”. E non scorgerei più la figura imponente di mio nonno, verso la quale mi dirigevo prontamente per prendergli la mano e chiedergli: raccontami una storia. Non ci sono più i “nostri” pranzi domenicali, natalizi e pasquali in quella casa. Sicuramente li è rimasto qualcosa di me, ma certamente non c’è più la mia infanzia…
Giuseppe Selvaggi (poeta e scrittore pugliese)
(Immagine tratta dal web)