Personaggio forse unico nella storia milanese “minore” – ma non per questo meno affascinante – della Milano fine Ottocento, primi del Novecento, Paolo Valera. Un cronista impavido che ha scandagliato in profondità il mondo dei ladri, dei borsaioli, delle prostitute, dei lenoni che prosperavano in quella che si avviava a diventare una metropoli; ma anche il mondo dei ricchi e dei corrotti, dei burocrati e persino quello della Giustizia, non propriamente cristallina: poliziotti, avvocati, magistrati. Sapeva scoprire e descrivere, spesso con accenti e sentimenti dello scrittore di razza, gli aspetti meno noti delle tante vite sotterranee che brulicavano nella città, arrivando alla fine a testimoniare col suo libro più famoso (Milano sconosciuta, pubblicato per la prima volta nell’anno 1879) il periodo storico di transizione fra l’epoca romantica e quella moderna e internazionale del capoluogo lombardo.
Valera è sempre stato socialista; ha militato nel partito assieme a Mussolini, prima che questi scegliesse altre vie. Fra i molti collaboratori del celeberrimo “foglio” da lui creato (La Folla, 1901-1915) figura anche il futuro Duce. Poco prima della morte, Valera incontra Mussolini in occasione di un ricevimento offerto dai giornalisti lombardi al trionfatore della marcia su Roma. Vedutolo, il Duce l’apostrofa: “…ci sei anche tu, Follaiolo; che fai di bello?” E Valera, acido: “aspetto che tu mi faccia fucilare”. Non muore fucilato, ma di un semplice malore nell’aprile del 1926, tentato sino all’ultimo di mettere alla berlina la burocrazia dello stato sabaudo, la questura, i poliziotti, i “sciuri”, le prostitute e i dirigenti dell’ospedale che l’ospita. Fedele sino in fondo al proprio istintivo, incorreggibile cliché.
Per meglio approfondire gli aspetti meno noti, più pericolosi – dei quali si parlava sottovoce perché facevano scandalo – Valera si infila nei locali più malfamati delle zone frequentate dalla teppaglia del Tivoli, della Vetra, del Bottonuto. Avvicina le prostitute (le mine, crappe, sguanguàn, scàje); i lenoni (gimàcch, rochèta); i bulli e i gradassi (lócch, balord, biscèla, balòss). Frequenta le case chiuse (casòtt, ciabòtt), a quei tempi numerosissime e per tutte le borse, gestite da sordide tenutarie (metrèss, dalla voce francese maitresse) ruffiane e megere rotte ad ogni compromesso morale pur di far soldi. Le esperienze che ne derivano sono uniche, sconvolgenti. La cosiddetta gente perbene viene a conoscenza di un mondo noto per sentito dire e ne resta avvinta, impaurita. Questa è la cruda descrizione del Valera sulle case di tolleranza: “…la verginità non si svergina in queste case malfamate; le primizie si consumano altrove. Quello che avviene è mestiere. La cortigiana è sulla piattaforma legale; chi entra sceglie. È donna prezzolata. È in vendita a prezzo fisso. L’edificio di Via Porlezza è affollato di odalische, di baiadere, di meretrici che hanno fatto carriera”. Altre “case”, più a buon mercato, ugualmente investigate, sono quelle di Via Pattari, Santa Radegonda, Via Soncino Merati, Via Passerella, Via Visconti, Via Armorari…
Paolo Valera indaga anche il mondo dei locali, dei luoghi di ristoro (si fa per dire, data la scarsa pulizia del tempo). Ecco come li descrive: “…alcune di queste locande sono addirittura pidocchiai. La gente vi si gratta. C’è da morire dagli spasmi. Il prurito non dà tregua. La truppa vi si condensa. Si sente che i pidocchi camminano sulla pelle. Passano dagli uni agli altri. Quelli di ieri sera corrono su quelli di stasera. Vi formicolano. È cosa indecente in una città di seicento e più mila persone”. Tra le seicento locande che contava Milano nel 1874, quella del Berrini era la più famigerata; annota Paolo Valera: “sui giacigli merdosi del Berrini è passata la generazione della malavita di mezzo secolo”. L’indagine del Valera si completa con la descrizione di un altro luogo di dolore e di miseria: quello che dava ricovero notturno ai perseguitati e ai vigilati speciali. Queste le parole del cronista: “…sono diversi stanzoni, lunghi, alti. Il più straziante è quello dei colpiti dalla morte civile. Frotte pigiate, in piedi, che si ritrovano ogni sera a confabulare sulle loro miserie. Non c’è risurrezione per loro. I vigilati speciali non si liberano dalla sentenza neanche se si cavassero la pelle come San Bartolomeo”.
Federico Formignani (giornalista e scrittore milanese)