Anche solo pensare di poter citare in estrema sintesi quante e quali siano le leccornie della cucina italiana è impresa impossibile e comunque inutile, perché sulle tavole natalizie di casa nostra si fa a gara per mettere il meglio del meglio in fatto di cibi, bevande e dolci. Quelli che seguono sono quindi alcuni suggerimenti che arrivano dalla cucina della mia città. Suggerimenti che hanno tuttavia una matrice antica: quella medievale, mirabilmente suggerita e descritta da Frater Bonvicinus de Rippa (più comunemente noto come Bonvesin de la Riva), attivo a Milano e nel contado verso la fine dell’anno MCC. All’epoca, la città era un grosso borgo agricolo affondato nel verde dei boschi, dei prati e umidificato da una fitta rete di fiumi, canali, marcite. Un borgo che a detta di Bonvesin galleggiava in un mare di abbondanza. Nel suo famoso libro “De Magnalibus Mediolani” (Le Meraviglie di Milano) descrive queste delizie alimentari ricorrendo a una lingua volgare, già da tempo utilizzata nelle prediche (latino curiale) e comprensibilmente infarcita di parole dialettali, che a loro volta rappresentavano in modo distorto il linguaggio volgare in via di formazione, grazie alla matrice dialettale da tempo presente. Il Medioevo di Bonvesin era in sostanza molto semplice per la vita delle città (grossi borghi) e delle campagne (piccoli borghi, cascine, insediamenti ecclesiastici): coltivazione della terra e produzioni agricole, allevamento degli animali, preparazione dei cibi. Ma il frate milanese ha le idee molto chiare in proposito: affinché non si nutrano dubbi sul fatto che Mediolanum sia il vero ombelico del mondo, Bonvesin ci informa che per lavorare i campi vengono impiegati ben “triginta milibus parium bovum” (trentamila paia di buoi). Il frutto di tale lavoro mette insieme, in un anno, qualcosa come duecentomila “plaustris feni” (carri di fieno). Tutti, o quasi tutti, possiedono poi una piccola vigna e la vendemmia annuale colma addirittura seicentomila carri di uva, che si trasformeranno in gran parte in vino. Cosa che, ricorda Bonvesin, fa di Milano la mecca dei “misciones” (dei beoni). Infine, si raccoglie legna da ardere dai boschi circostanti per centocinquantamila carri all’anno. Grandi lavoratori, i milanesi, in grado di dedicare alla buona tavola parte dei propri guadagni. Il fraticello non ha dubbi, in proposito: a Milano, chi “habet suficientem pecuniam” (ha soldi a sufficienza) riesce ad appagare ogni voglia culinaria.
Una prima lista vede l’elencazione delle verdure e delle erbe che insaporiscono i piatti preparati e serviti nelle case nobiliari e in quelle dei ceti più modesti; quasi un bisticcio fonetico sono le parole “raparum” e “naporum”, che indicano rispettivamente le rape e i navoni o ravizzoni. Sulle mense milanesi è comunque un tripudio di prodotti della terra: “caules, lactucas, spinachia. feniculum, porra” (cavoli, lattughe, spinaci, finocchi e porri). Per preparare poi gustosi minestroni, sono a disposizione: “faxeolorum, lentium, cicerum e fabarum” (fagioli, lenticchie, ceci e fave); ingredienti modesti, ma preziosi di ogni cucina sono poi le erbe, i sapori. E qui Bonvesin elenca quelle più importanti: “salviam, mentam, mayioranam, alium, baxalicon, petroselinum” (salvia, menta, maggiorana, aglio, basilico e prezzemolo) senza trascurare le “olivarum et lauri bacce” (bacche di olivo e lauro). Le bacche di lauro, ricorda il frate, sono portentose per la cura del mal di ventre, una volta immerse nel vino caldo. Passando ai piatti forti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Bonvesin confessa di amare in modo particolare le “boni saporis carnes” (carni saporite). Le scelte comprendono quindi animali da cortile e cacciagione: “caponum, columbarum, pavonum, anatum, galinarum, faxianorum, turturum, perdicum, alaudarum, coturnicum, fiscedularum, ornicum e anserum”. Nell’ordine: capponi, colombi, pavoni, anatre, galline, fagiani, tortore, pernici, allodole, quaglie, anatre selvatiche, galline selvatiche e oche. Tra i cibi più consistenti troviamo: “sues” (maiali), “oves” (pecore), quindi “agni” e “hedi”, ovvero agnelli e capretti. Vera delizia delle acque del Lambro sono poi i “cancri” (i gamberi). Innaffiato da ottimo vino, il pranzo o la cena possono concludersi con alcuni frutti oggi di difficile reperibilità, ma un tempo abbondanti nel milanese: “morona, ficus flores, iuiube, poma cotuna, nespila” (more, fichi fioroni, giuggiole, mele cotogne, nespole) e per le lunghe e fredde sere d’inverno, con la fiamma del camino ben accesa, una scorpacciata di “castanee, que marona dicuntur” (castagne, dette anche in dialetto “marón”).
Federico Formignani (giornalista e scrittore)
(Immagini tratte dal web)