Quando gli chiedono se sia uno scrittore risponde: “Anche”. E ha ragione lui. Perché dietro una risposta secca e semiseria come questa si nasconde una grande verità. Giuseppe Selvaggi, 65 anni, pugliese di Bisceglie, sposato e padre di due figlie, una laurea in Scienze Politiche e un recente passato da dirigente bancario, è “anche” uno scrittore. Un esercizio, quello della scrittura, che lo fa sentire a suo agio, ben nascosto dietro alla tastiera di un computer. Sì, perché l’uomo tende a stare dietro le quinte del palcoscenico della vita, ma non per timidezza o introversione, tutt’altro. E’ che da lì, a suo dire, si gode meglio lo spettacolo di questo mondo, per la verità non sempre bello da vedere. E poi ci si espone meno, sfruttando il basso profilo per produrre idee e progetti di qualità. Selvaggi, infatti, è animatore di organismi culturali (come l’Associazione Regionale Pugliesi di Milano) e organizzatore di eventi di conoscenza e approfondimento delle culture delle genti del Sud Italia e delle nuove realtà metropolitane. Collabora con diversi giornali locali ed è inoltre un apprezzato conferenziere. Ma quest’ultimo aspetto, essendo il soggetto, appunto, tendente ad apparire il meno possibile, sembra marginale, quasi un paradosso. Provate ad immaginare, dunque, quanto sia stato difficile, per me, nonostante l’affettuosa amicizia che ci unisce, tirargli la giacca e trascinarlo qui, su queste pagine. Una volta seduti, però, davanti a un buon caffè, la sua affascinante affabulazione è sgorgata spontanea, dando vita a un botta e risposta a mio modo di vedere davvero interessante…
Caro Giuseppe, parliamo subito del tuo nuovo libro, “Abbracci d’Autunno”. Il titolo indica proprio la stagione in corso, che anni addietro era considerata una stagione “calda” sotto diversi punti di vista. Possiamo dire, a maggior ragione, che questa lo è ancora di più…
“Per memorie non rimosse e per diritto d’anagrafe i ricordi di questo periodo dell’anno sono un po’ come i colori di questa stagione, che invitano la nostra psiche alla riflessione e alla comparazione tra memorie collettive affidate agli addetti ai lavori, alle nostalgie dei “reduci”, che non trovano più un uditorio a cui raccontare storie di uomini e idee e rimozioni e rivisitazioni di stagioni di lotte, rivendicazioni e speranze. Non ho grandi nostalgie degli “autunni caldi”, sia da un punto di vista politico che sindacale. Ho invece maturato negli anni una riconsiderazione per gli entusiasmi e la partecipazione collettiva e individuale di chi si illudeva di poter cambiare il mondo. Il guaio è che il mondo, inteso come luogo organizzato abitato dagli umani, in una ripetitività ciclica cambia solo i nomi di chi è arroccato dentro le mura fortificate di una cittadella e difende posizioni e privilegi e chi stando fuori tenta di darne l’assalto per diventare a sua volta strenuo difensore di ciò che voleva abbattere, finendo così solo con il sostituire il “nemico”. Non vedo grandi differenze tra ieri e oggi; élite che si sostituiscono ad altre élite? non è proprio così, la spettacolarizzazione e l’abbassamento della percezione della qualità dei nuovi protagonisti a tratti ci fa ripensare con mai immaginato rimpianto a chi c’era prima”.
Il sottotitolo recita: “Cercando nuove primavere”. Difficile sganciarlo dal futuro, che immaginiamo molto diverso da questo presente…
“Devo ammettere che a tratti faccio fatica a immaginare il presente, ripeto immaginare, questa e altre sensazioni di assenza sono nutrite tutti i giorni da qualcosa di intimo che riscopro nel silenzio di una metropoli anestetizzata. In ebraico, vita si dice chaim. E’ un plurale. Letteralmente significa vite, forse perché la vita non è mai una sola. Tutti ne abbiamo vissuta o ne viviamo più di una. In relazione alle diverse fasi della vita, da qualche parte devo aver letto che “la vita si potrebbe dividere in rivoluzione, riflessione e televisione. Si comincia con il voler cambiare il mondo e si finisce col cambiare i canali”. L’autunno è la stagione dei crepuscoli e delle nostalgie, la primavera è l’esplosione della vita. Se in autunno ci si prepara a vivere l’intimità della casa, in primavera si ci accinge a vivere nella natura rigogliosa. Se in autunno si cerca il calore da cui ripartire, anche quello dell’abbraccio degli affetti, in primavera si mette in pratica quella socialità, ritornando in pienezza nel mondo circostante per sperimentare che la primavera non è una sola, ma sono tante, sempre nuove, sempre diverse, pure nell’unicità del ciclo stagionale. Il titolo del mio nuovo libro nasce dal ricordo di un invito, di un incoraggiamento di mio padre Francesco: “Abbraccia l’autunno. E’ un passaggio in cui il sole diventa solo un poco più avaro. E non ti stancare di cercare nuove primavere”…
A proposito di abbracci: tu non soffri la solitudine perché sei un uomo intenso, che ama il pensiero e la contemplazione. Ma sei anche un uomo del Sud, che per quanto trapiantato a Milano da molti anni non ha perso il calore della sua terra di Puglia e l’amore per i rapporti umani (quelli veri). Quanto ti mancano (se ti mancano) gli abbracci, i baci e le carezze delle persone a cui vuoi bene?
“Se il tempo fosse un gambero. Me lo ripeto e mentre pronuncio sottovoce questo mantra mi tornano alla mente i ritorni a casa, in Puglia. Mia madre che ogni due o tre ore mi telefonava per sapere a che punto eravamo, che sin dalla sera prima spiava l’ingresso da dietro alla finestra, mio padre pronto con il telecomando ad aprire il cancello del passo carraio anche quando arrivavamo senza macchina. Era una festa silenziosa, entravi e a qualsiasi ora la cucina sembrava quella di un ristorante, era l’idea ossessiva che a Milano si mangia male e che certe cose sono veramente buone solo a casa. “Mangia, che ti vedo sciupato”, oppure come diceva mia nonna: “Ti hai sciupato, ti vedo secco secco”. Questo rito è continuato, con meno cerimonie, anche dopo che mia nonna e mia madre non ci sono più state. Facendosi forza, mio padre ha cercato di sostituire mia madre ai fornelli, si adoperava perché gli facessimo i migliori complimenti per come era diventato bravo e pareva apprezzare. Per anni aveva osservato tutti i movimenti di sua moglie e da uomo aveva goduto d’essere servito e accudito. Dopo si è arrangiato. Il tempo passa e apre ferite che non si rimarginano; la vecchiaia, lo spirito sconfitto dalle troppe domande senza risposta e la consapevolezza che la strada si sta accorciando. La casa di famiglia nel paese natio adesso è vuota e anche mio padre, ahimè, ha smesso per “sopravvenuti e superiori impegni” di dispensarmi consigli e pillole di saggezza. Il fluire dei ricordi si dipanano attraverso le stagioni e le loro immagini tipiche nei contesti rurali e marinari della mia Puglia e in quelli più cittadini, talvolta asettici, della Milano che mi ospita da tanti anni. Alle immagini delle feste patronali, con luminarie e fuochi d’artificio, del mare in burrasca, della terra rossa, delle memorie dei genitori, della loro sapienza antica, fanno da ponte le immagini di treni che partono, di valigie, di nuvole in fuga che conducono a uno scenario cittadino di luci, di vetrine e purtroppo anche di senzatetto, segno di una dolente umanità. Tempo e spazio si fondono nelle immagini di tramonti infuocati, notturni pieni di musica, albe di speranza, primavere che annunciano estati dal sole accecante”…
A questo punto, che opinione ti sei fatto della situazione che stiamo vivendo? E secondo te come cambierà lo stile di vita a Milano? Almeno fino a quando i suoi abitanti saranno costretti a cambiarlo, visto che questa città vive delle sue relazioni, degli incontri che diventano occasioni e progetti e invece ha dovuto organizzarsi diversamente, con i social network e le video chiamate…
“Chi ci restituirà i giorni, le ore, i minuti persi in una sorta di sala d’aspetto, dove ognuno sfogliando una sgualcita rivista è sospeso tra dubbi e domande e guardandosi tutt’intorno si chiede: “Che ci faccio qui?”. Alla fine di questo tempo che non so definire ci sarà dato un buono da spendere o utilizzare per recuperare il tempo perduto? Torneremo a fare quel che non ci piaceva e ora ci manca? Purtroppo in queste ore stiamo cominciando a rivivere un incubo. Ci siamo illusi, ci hanno illuso, viviamo in una sorta di sterilizzazione dei rapporti sociali. L’incertezza paralizza iniziative che non partono e l’ombra di una pesantissima crisi generalizzata è evidente per chi ancora circola mascherato e con sconforto conta le saracinesche che non si sono più alzate. Pessimismo? A tratti è più rassegnazione e il tutto non promette nulla di buono perché non se ne conosce la causa scatenante e non se ne intravede una fine certa. Che fare? Un tempo uno partiva, ma ora dove va? Fuggire per dove? E’ il mondo ad essere malato, non ci sono zone franche. Lo stile di vita è già cambiato e ora che chiuderanno nei fine settimana anche i grandi centri commerciali si perderanno insieme a posti di lavoro luoghi di aggregazione per chi non ha fantasia e si parcheggiava in questi luoghi dove l’offerta del volantino generava entusiasmo per acquisti non sempre utili. Restano i rapporti affettivi, la famiglia o ciò che ne rimane. E in fondo sarà la voglia di rialzarsi e reinventarsi, quello che ci consentirà di riprendere a vivere. Perché questa guerra non sarà per sempre”.
Facciamo un piccolo (o grande, come lo vogliamo considerare) passo indietro, a quando non eri ancora un pensionato più o meno felice. Visto che sei un esperto, parliamo del rapporto tra i cittadini e le banche. Che snellimento dovrebbe intervenire per aiutare, di fatto, le aziende e più in generale i lavoratori autonomi?
“Un esperto è nella convinzione generalizzata uno che dovrebbe sapere tutto o quasi e per non svelare i propri limiti o deludere chi lo considera esperto si trincera dietro discorsi privi di consistenza o ripete come un mantra giudizi griffati. Oppure, ancor meglio, tace, dando a intendere di avere un’idea precisa e complessa da spiegare, che genererebbe in chi esperto non è solo incertezze. La tua è una domanda lecita, alla quale non rispondo perché se non sono io il “medico curante” è inutile che provi a ipotizzare cure o soluzioni. Finirei nella migliore delle ipotesi (e se risultassi credibile) a deambulare da un inutile convegno a una ospitata televisiva”.
Va bene, Giuseppe, mi hai convinto (si fa per dire). Ci riprovo con un’ultima domanda: che cosa manca, oggi, di veramente utile, perché ci sia una ripresa economica (milanese, lombarda e nazionale)?
“Vorrei evitare di ricorrere alla sintetica frase utilizzata dalle aspiranti Miss Italia, quando gli si chiedeva: “Cosa vorresti?”. E loro, candidamente, rispondevano: “La pace nel mondo”. E’ sotto gli occhi anche dei meno attenti osservatori che manca il senso di servizio e chi sia in grado di favorire la vera ripresa attraverso norme semplici, comprensibili e applicabili. Servono modalità di accesso al credito chiare e capaci di favorire la continuità produttiva e la nascita di nuove iniziative imprenditoriali. Servirebbe reinventarsi scuole e università capaci di forgiare una classe dirigente seria, credibile, affidabile e con una visione planetaria degli scenari e delle economie. Servono più scuole di arti e mestieri che favoriscano talenti che hanno fatto grande il Made in Italy. Alla fine manca tutto quello che manca. E la lista sarebbe lunga; quello che si deve evitare è che prevalga lo sconforto sulla voglia di fare e si perda tempo a pensare a formule che non servono alla vera ripresa economica”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)