Ci siamo conosciuti personalmente l’anno scorso, in occasione di un concerto all’Arci Bellezza, quando questi momenti di distanziamento fisico nessuno poteva immaginarli. Sul palco io presentavo, lui cantava e i Mo’ Better Swing suonavano. E se è venuto fuori un buon mix di parole, musica e canzoni il merito è stato in massima parte suo e della raffinata band milanese. Folco Orselli, 49 anni il prossimo 6 dicembre, è uno dei cantautori e musicisti milanesi più amati e rappresentativi della nostra città, molto apprezzato anche fuori dai confini lombardi. Il suo curriculum artistico è noto, così com’è conosciuto il suo spessore umano, con lo sguardo perennemente rivolto a chi resta indietro in una realtà metropolitana sempre più dura. Da due anni a questa parte è anche testimonial ufficiale dei City Angels, l’associazione benefica che si occupa dei più bisognosi. Questa nuova chiacchierata tra di noi avviene in una Milano ferita e ancora piegata dalla pandemia sotto molti punti di vista: sanitario, politico, economico e sociale. “Milano ha subito un duro colpo, ancora più duro se pensiamo che la prima ondata ci ha sorpresi in una fase di forte ascesa del Brand Milano”, attacca sospirando il cantautore meneghino. “Forse stavamo volando troppo alto e la brusca frenata ci ha spaesato, riportandoci duramente alla realtà. Errori ne sono stati commessi, ma devo dire che non possiamo non tenere in considerazione la novità assoluta di questo evento che ha colpito tutto il mondo. La seconda ondata, invece, poteva sicuramente essere gestita meglio; si è contato sulla migliore delle ipotesi, ovvero che il virus non si ripresentasse, e se per noi cittadini è perdonabile, vista la stanchezza e la voglia di mettersi alle spalle questo incubo, i nostri governanti, a tutti i livelli politici, dovevano considerare, come si fa quando si ragione responsabilmente, l’ipotesi peggiore, quella che purtroppo si è verificata. Detto questo, vediamo se questa crisi sanitaria può servire da sprone a migliorare quello che non andava: Sanità pubblica preferibile alla deriva privata e molta più prevenzione, ad esempio. E poi un’attenzione più empatica tra noi cittadini, soprattutto verso quelli più fragili, che vanno non solo aiutati, ma anche ascoltati, coinvolti. Una nuova idea di socialità, che guardi al soddisfacimento delle nostre aspirazioni e al raggiungimento della felicità, non soltanto alla visione stretta che ci contempla come soggetti produttivi, “risorse umane”, per usare una locuzione che trovo terribile”.
A proposito di inclusione sociale: Tu canti le periferie milanesi, che ami profondamente. Sei l’antitesi del Milanese Imbruttito, una parodia tutta fatturato, aperitivi e Centro Storico. Quale atteggiamento hanno tenuto, secondo te, questo tipo di cittadini, rispetto alla situazione attuale? E’ davvero una città spaccata in due, la nostra, da questo punto di vista?
“Il Milanese Imbruttito, inteso come il personaggio interpretato dal mio amico Germano Lanzoni, dovrebbe risultare chiaro a tutti che è una parodia autoironica, satirica, che in realtà sottolinea il tragico, il grottesco che sta nel personaggio “figa e fatturato”, portandolo all’estremo. Dico dovrebbe perché in realtà c’è chi pensa (pochi, fortunatamente) che invece sia un modello vincente, uno status invidiabile. Ecco, questa è la parte peggiore della città, che non è nemmeno in grado di capire che viene presa per i fondelli dagli autori. La nostra città è rappresentata e preceduta da una storia di accoglienza e di umanità; si muove come un corpo unico, che ha sviluppato nei decenni una sensibilità particolare, un proprio modo di intendere la solidarietà. E anche l’ironia milanese trovo che sia una delle caratteristiche che più ci contraddistingue. Se pensiamo alla peculiarità artistica di Milano mi viene in mente Enzo Jannacci, che del surrealismo (sinonimo di intelligenza), ma anche dell’attenzione verso gli ultimi ha fatto la sua cifra. Quindi no, non credo si sia spaccati in due. Credo al contrario si sia, su questo fronte, molto più uniti di quello che pensiamo”.
Ha ancora senso parlare di musica milanese? Non è un po’ fuori dal tempo ascoltare canzoni in dialetto meneghino?
“Non penso che il concetto di musica milanese riconduca per forza immediatamente al dialetto, peraltro meraviglioso e musicale, come la gran parte delle parlate regionali. Lo dimostra il mio amico Claudio Sanfilippo, con la sua larga produzione in meneghino, confermando anche la possibilità del dialetto di essere al passo con i tempi. Credo che gli autori di canzoni o di parole più in generale, comprendendo anche la Letteratura, risentano del territorio in cui vivono. Parlare di musica milanese per me significa immaginare l’espandersi dei luoghi dell’anima spalmati su luoghi fisici. Se penso a una caratteristica del sentire milanese mi viene in mente che possa essere legata al Genius loci. La nostra è una narrazione, dunque, legata alla fisicità dei luoghi. E penso ai trani, dove i cantastorie del tempo raccontavano le gesta di eroi popolari, facendoti sentire l’odore dei Navigli e scorgere le ombre delle case di ringhiera. Oppure a Gianni Brera, un altro formidabile esempio di come i luoghi nella sua scrittura si vestano di poesia e di riconoscibilità emotiva. O ancora ai Gufi, con Nanni Svampa, per arrivare infine a noi, che di quella scuola portiamo i segni e che cerchiamo di trasferire anche nel futuro”.
Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano? E in che modo può o potrebbe influenzare la produzione musicale e letteraria milanese?
“Il destino delle metropoli, grandi o piccole, come la nostra, è il multiculturalismo, anticamera di una neo cultura che si aggiorna costantemente. La storia dei popoli è storia di migrazioni, nei nostri occhi e sulla nostra pelle portiamo i segni di civiltà antichissime, che soprattutto nella nostra Mediolanum (ricordiamolo, significa terra di mezzo) hanno portato i colori delle loro di terre e delle loro tradizioni. L’identità culturale di un luogo in un determinato tempo, per esempio questo, è già essa il frutto di una somma di identità che si sono armonizzate e che hanno creato un sentire culturale comune. Attenzione: il multiculturalismo non significa, per me, la convivenza sullo stesso territorio di culture che non dialogano, ma il rispetto reciproco, in vista di un’evoluzione armonica delle stesse, che vanno a formare il concetto di identità culturale aggiornata. La nostra cultura contiene i valori germanici, francesi, spagnoli, che nel tempo hanno lasciato tracce nei nostri, di valori. Per esempio, tornando al dialetto, quello milanese ha parecchie influenze derivate dalla lingua francese. Questa è la neo cultura in costante aggiornamento di cui parlo. Federico II, sovrano germanico illuminato, ha sdoganato la cultura araba che vediamo riflessa nell’arte o nelle architetture, soprattutto al Sud. Inevitabilmente una città come la nostra, che dell’accoglienza si è sempre fatta vanto, si farà portavoce di un’integrazione positiva, che naturalmente verrà rappresentata anche nelle canzoni e più in generale nelle creazioni degli artisti. Chi si oppone a questa visione del futuro (e ce ne sono tanti, a partire dai sovranisti della domenica, che applicano la ricetta dell’isolazionismo solo all’economia, senza considerare i danni culturali che ne derivano) a mio parere applica un pensiero retrogrado e antistorico”.
Parliamo adesso delle conseguenze di questa pandemia sul mondo del lavoro, in particolare, ovviamente, il tuo. Voi musicisti come vi siete organizzati? Com’è cambiata la vostra attività in questo periodo?
“Questa pandemia ha svelato interconnessioni che solo apparentemente erano celate. Ha messo sullo stesso piano i datori di lavoro con i dipendenti. Chi come me si esibisce principalmente nei club ha lo stesso problema del gestore dello stesso, che fino a quando non potrà riaprire non potrà dare lavoro agli artisti. Fatto salvo, naturalmente, l’aspetto “ristoro”, che per noi sono state e sono (per chi le ha prese) soltanto briciole. Questa politica ha messo insieme i sani con i malati, al di là del fallimento della cooperazione tra Sanità privata e pubblica, i ritardi sui tamponi, la mala gestione dei malati a casa, abbiamo capito che sani o malati, appunto, siamo tutti sulla stessa barca, che fa acqua da tutte le parti. Questa situazione ci ha svelato le disparità tra garantiti e non garantiti e ci ha fatto scoprire quelle che per il Governo sono categorie prioritarie e anche quelle sacrificabili come la nostra. In questo momento l’assenza totale di spettacoli ci ha gettati tutti nella solitudine intellettuale; sapevamo che i teatri erano i luoghi più sicuri da frequentare, lo dicevano i dati, su migliaia di rappresentazioni c’è stato solo un caso accertato di positività, ma li hanno chiusi lo stesso. Qualcosa dovevano pur fare, no? Dovevano dare un segnale di risolutezza e di padronanza della situazione e hanno sacrificato quello che per loro è il superfluo: lo spettacolo, i concerti, i cinema, le mostre, il teatro. Bene, ora lo sappiamo qual è il nostro posto, quello in fondo a destra, vicino al cesso. Dal canto nostro, facciamo quello che possiamo per resistere, siamo una categoria precaria da sempre e sappiamo gestire le difficoltà che il mestiere di artista, in un Paese che considera l’arte quasi come un hobby, ci hanno da sempre accompagnato e che questa emergenza sanitaria ha soltanto amplificato”.
E poi hai lanciato una lodevole iniziativa, per rilanciare gli spettacoli e offrirli “sospesi”. Puoi spiegarci di cosa si tratta?
“Per la serie: “La necessità aguzza l’ingegno”. Ho ricevuto una proposta illuminante dalla Onlus Oklahoma, una comunità che si occupa di minori in difficoltà e a questo punto non solo di loro. Si sono offerti di pagare ora, a me e ad alcuni miei colleghi, il cachet di uno spettacolo che rappresenteremo nel loro giardino quando la situazione lo permetterà. Una sorta di “future” sullo show. L’ho trovata un’idea geniale e ho lanciato “Spettacolo Sospeso”. In sostanza, gli artisti offrono alla loro Community sui social uno spettacolo, appunto, sospeso come il caffè nelle torrefazioni napoletane. In questo modo chi decide di sostenere un artista si porta a casa una festa futura per quando l’emergenza sarà finita. Una festa che servirà anche a celebrare tra amici la fine di questo incubo, “ristora” cultura e arte ed è anche un ottimo regalo di Natale. Insomma, si tratta del classico “Uovo di Colombo”. La cultura viene sostenuta da chi ne fruisce e ci si nutre: la gente, il pubblico. Invito tutti i miei colleghi a raccogliere questa idea, a farla propria. Basta pubblicare un post o lanciare un evento su Facebook, dare un titolo alla proposta (la mia l’ho chiamata “Blues da asporto: servito freddo in primavera”) stabilire un cachet (che verrà proposto in privato a chi interessato) e le modalità di messa in scena, in questo caso “messa in casa” dello show, che potrà essere realizzato in un ampio salotto, in un giardino o in un cortile. Da questa pandemia si dice che se ne esce insieme o non se ne esce, giusto? Ecco, questo è un esempio concreto”…
Facciamo un piccolo passo indietro e torniamo a dare uno sguardo alle periferie. Tu stai lavorando già da un po’ di tempo a un bellissimo progetto che riguarda, appunto, le zone cittadine periferiche. Ce ne vuoi parlare?
“E’ un progetto molto ampio che mette insieme cinema ed eventi sui territori. Considero le periferie, i quartieri, un’opportunità da cogliere, più che un problema da risolvere. Nasce tutto da un’esigenza che ho avvertito circa tre anni fa. Una certa politica stava dipingendo le periferie milanesi come una sorta di Bronx lasciato a se stesso, ingovernabile e pericoloso. Nessuno nasconde che le periferie vadano migliorate, ma la propaganda sulla pelle dei più deboli mi ha sempre fatto infuriare. Io i quartieri li conosco, sono cresciuto a Milano negli anni 70, mi ricordo, anche se ero un bambino, il clima cupo del ’77 e l’eroina degli anni ’80. Allora le periferie erano più pericolose di oggi, malavitosi e spaccio la facevano da padroni e gli eventi criminosi erano molto più numerosi di adesso. Invece oggi l’insicurezza percepita è aumentata e secondo me un colpevole c’è: il pregiudizio. Dividi et impera è stato il motto a cui gli Antichi Romani si sono attenuti per dominare il mondo. Credo che la cosa funzioni anche ai nostri tempi. La solita certa politica ha cercato di instillare (e in molti casi ci è riuscita), nelle menti e nei cuori di chi le crede la paura e la sensazione di imminente minaccia, senza che nella maggior parte dei casi ci sia nessuno ad impaurire o a minacciare. Questo per lucrare consenso elettorale. E vedrete che da qui a poco il balletto, in vista delle Amministrative di maggio, ricomincerà. Tramite questo docufilm voglio dare la mia versione delle cose, quella che conosco, ovvero che i quartieri sono ricchi di talenti, di fantasia, di gente che quotidianamente si sposta verso il Centro per lavorare tenendolo acceso, luoghi di tradizione e di innovazione in cui risiede la nostra vera identità. Se vuoi conoscere l’identità di una città è meglio farsi un giro in periferia. I centri cittadini sono massificati, stessi negozi, stesse attività, stessi brand, li ritrovi in tutte le grandi città, non solo in Italia, ma anche in Europa. Se vuoi respirare l’aria di casa tua, quella aggiornata, devi andare oltre, devi camminare verso fuori. Questo progetto mette insieme arte, cultura, genti e quartieri diversi e cerca di dimostrare che attraverso la conoscenza approfondita interpersonale si scopre di avere molte più cose in comune l’un l’altro, abbattendo così il muro del pregiudizio. Questa, in sintesi, è un po’ la filosofia che è alla base del progetto”.
Non pensi che come spesso accade, paradossalmente, in situazioni come queste si creino nuove opportunità in tutti gli ambiti, dal sociale al culturale e a quello lavorativo e professionale?
“Come sempre le crisi nascondono, a caro prezzo, delle opportunità. Se riusciremo a capire che il nostro destino è molto più comune che individuale e che quindi avere più attenzione per il sociale e per i più deboli significa prendersi più cura di noi, se sapremo ricordarci del silenzio delle arti, del teatro, dei concerti, un silenzio assordante, che ora urla nelle nostre orecchie, se ce ne ricorderemo anche dopo la fine dell’emergenza diventeremo uomini e donne migliori, esponendoci all’influenza benigna della cultura, che parla con lo stesso dizionario delle emozioni e attraverso queste ci allena alla sensibilità. Se sapremo gestire i duecento e passa miliardi di euro che saranno (speriamo presto) messi a disposizione dall’Europa (soldi degli investitori garantiti dal bilancio comune e non soldi nostri, come dice qualcuno) e li sapremo investire in una visione alta e illuminata del Paese, che abbracci sviluppo ecologico, digitalizzazione intelligente e futuro sostenibile, se questa pandemia ci insegnerà la fraternità e non l’ennesima contrapposizione tra blocchi d’interesse, tra mille egoismi e lobby predatorie, potremo dire che questo male (e quanto ce ne ha fatto…) non è venuto solo per nuocere. Avremo il coraggio, l’intelligenza e la visione per far in modo che sarà così?”.
Un’ultima domanda, Folco. Che cosa manca, oggi, di veramente utile, a tuo parere, perché ci sia una ripresa economica milanese e lombarda?
“La ripresa ci sarà. I milanesi e i lombardi sapranno uscire da questa crisi e ne usciranno presto, i rimbalzi dell’economia, prima della seconda ondata, stavano certificando che la reazione c’era stata. Ci sarà ancora, sull’onda dell’entusiasmo che i vaccini si porteranno dietro. Io mi aspetto quello che chiamo Neo Rinascimento, una ventata di ottimismo che andrà raccolta e amplificata. Ricordiamoci che dopo le grandi crisi (e questa lo è) sono sempre venuti periodi di rinascita e di opportunità. Andiamo incontro alle Olimpiadi Invernali 2026, che dovranno trovarci in piedi e preparati ad affrontarle. E sono sicuro che così sarà. Il nuovo corso della Green Economy è una grande occasione di rilancio e di lavoro, Milano sarà in prima fila e voglio credere che gli obbiettivi, ambiziosi, che ci siamo dati, ovvero le iniziative come ForestaMI, riqualificazione dei vecchi scali merce, i tetti verdi, la rivoluzione nei trasporti che l’idrogeno porterà con sé, verranno realizzati nel migliore dei modi. Dobbiamo fare più squadra, non risparmiando alla politica le giuste critiche, ma lavorando anche insieme a chi ci governa al raggiungimento di obiettivi comuni”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)
Immagini di Lorenzo De Simone
GUARDA IL VIDEO DI FOLCO ORSELLI (1)