Chi attraversa la circonvallazione di Milano, diretto verso Baggio, prima di imboccare il viale delle Forze Armate si trova sulla sinistra un elegante palazzo, di colore giallino Maria Teresa. È la sede del Pio Albergo Trivulzio, casa di cura per chi, ormai anziano, necessita di un ricovero a prezzi non esagerati. Pio Albergo Trivulzio è il nome ufficiale della struttura, ma, per tutti i milanesi, stiamo parlando della “Baggina” come da sempre viene chiamato, proprio per l’essere ubicato sulla strada che porta al quartiere di Baggio. E da sempre “baggina” è il soprannome che viene dato, un po’ scherzosamente, a volte con disprezzo, all’anziano un po’ rompiscatole e brontolone. Purtroppo, dal 1992 il nome Pio Albergo Trivulzio ricorda ai milanesi anche altre storie, un po’ più tristi e inquietanti. Era l’inizio della lunga stagione degli scandali legati alla corruzione e alle indagini dei magistrati del pool di “Mani Pulite”. Era la fine di una certa Milano e l’inizio di qualcosa che, forse, non è mai finito. Il “prima” erano i favolosi, scintillanti anni Ottanta, gli anni spensierati dei paninari, dei Duran Duran e degli Spandau. Gli anni dei film di Rambo di Sylvester Stallone, di Reagan che piegava l’Unione Sovietica e, per venire a cose più nostrane, delle indicibili gioie regalate dal Milan di Arrigo Sacchi, del trio olandese Van Basten, Rijkard e Gullit, di Franco Baresi e di quattro stagioni, dal 1987 al 1991 in cui il Milan vinse tutto quello che si poteva vincere. E Milano gioiva e sognava.
Erano gli anni del Drive In, irrinunciabile appuntamento della domenica sera, con una comicità magari un po’ sciocchina e ripetitiva, ma che attraeva tutti.
Era la Milano da Bere, che cambiava volto, voleva diventare “capitale del terziario”.
Milano da Bere che poi era la pubblicità dell’amaro Ramazzotti, girata con una fotografia patinata e glamour in stile Adrian Lyne, che raffigurava la giornata frenetica, allegra e piena di vita della città e finiva con una coppia di giovani che si baciavano al tramonto. Lui che stringeva una ragazza elegante, che tutti noi avremmo voluto stringere, con ancora vivide le immagini dello spogliarello di Kim Basinger dietro le persiane di “Nove settimane e ½”. Erano anni in cui tutto sembrava a portata di mano: le carriere più belle, le ragazze più sexy, le auto, i vestiti. Bastava darsi da fare.
Quel giorno del 1992, quando il Pio Albergo Trivulzio balzò sulle prime pagine di tutti in giornali, anch’io ero intento a obbedire al comandamento del darsi da fare. Mentre studiavo all’Università mi arrabattavo fra vari lavoretti, sempre con la meta dei “daneè”. Su questo mondo un po’ disimpegnato, magari edonistico, forse superficiale, di sicuro ingenuamente speranzoso, cadde come una meteora l’inchiesta Mani Pulite e da allora Milano divenne Tangentopoli. Il 17 febbraio 1992, l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, amministratore di area Partito Socialista Italiano veniva colto con le mani nel sacco, tecnicamente in flagranza di reato, mentre prendeva una tangente da un imprenditore per un appalto alla Baggina. Dopo poco tempo, Chiesa iniziò a collaborare con i magistrati di quello che sarà il “Pool Mani Pulite”: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Le inchieste durarono anni e portarono al numero impressionante di 4500 indagati, con un giro di mazzette e finanziamenti illeciti intorno ai 3.500 miliardi di lire. Ma le cifre, da sole, non bastano a descrivere la rabbia, la concitazione, la costernazione e il senso di stordimento che pervasero Milano in quegli anni. Era il crollo di un sistema sociale, politico ed economico. Il Partito Socialista Italiano aveva amministrato per anni la città e riscuoteva molte simpatie. Ora stava affondando fra arresti e indagati. Ma quello che ancora di più disorientava era il ritmo frenetico delle notizie, che entravano con forza nelle case dei milanesi attraverso la tv. Un giornalista del Tg4 divenne famoso in quegli anni, era Paolo Brosio, che stava praticamente appostato davanti al Palazzo di Giustizia tutto il giorno, tutti i giorni, per vedere chi entrava e chi usciva, per cercare di strappare interviste e dichiarazioni a indagati e magistrati.
Poi c’erano loro, i magistrati, col carismatico Antonio Di Pietro, ripreso più volte all’uscita dal Palazzo, o dalla caserma della Guardia di Finanza di Fabio Filzi, con jeans e camicia a quadretti con le maniche rimboccate, quasi a sottolineare anche la fisicità dello sforzo a cui erano sottoposti e a cui sottoponevano testimoni e indagati. Un enorme scandalo, anzi una catena ininterrotta di scandali, filmati quasi come un reality show ante litteram dalle telecamere, con alcuni momenti salienti, rimasti nella storia.
Il discorso di Bettino Craxi, segretario del PSI, alla Camera, dove chiamava a correità tutto il sistema politico e poi ancora la famosa testimonianza del segretario socialista al processo per la maxi-tangente Eni, che vide anche il suicidio, fra mille polemiche che investirono anche i giudici del Pool, del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari. Fu un momento memorabile: il carisma di Antonio Di Pietro ebbe un tentennamento nell’interrogare Bettino Craxi, uomo che a sua volta, di carisma ne aveva da vendere. Durante la deposizione, il leader del PSI tratta Di Pietro quasi in modo paternale: “L’ho cominciato a capire quando portavo i pantaloni alla zuava….” Dice al Pubblico Ministero. E poi il susseguirsi di nomi celebri e meno celebri, a tamburo battente. Tutto a ritmo elevatissimo, il susseguirsi di tanti fotogrammi, come in un film mandato avanti in modo accelerato. Un film dell’orrore però. Non certo una commedia. E poi ancora il suicidio, denso di misteri, di Raoul Gardini, che colpì la città come una mazzata.
Calò il buio sulla città, che sembrò perdere il suo ottimismo, la sua vocazione, il suo carattere. Fu un’altra stagione di piombo.
Una sorta di depressione nervosa collettiva che ha lasciato Milano con moltissimi dubbi su sé stessa, sul suo futuro sulla sua vocazione.
Dubbi che da allora, forse, non l’hanno mai più abbandonata.
DA MILANO ALL’ITALIA
Dubbi che peraltro hanno attanagliato tutta l’Italia, uscita dalla vicenda frastornata e disgustata, perché convinta, che alla fine, tutta la classe politica era coinvolta nella corruzione. L’opinione pubblica cominciò a maturare l’idea che i nuovi politici avrebbero dovuto avere, come primo requisito, quell’onestà che era mancata ai loro predecessori.
Questa rottura valoriale segnò il passaggio fra la Prima Repubblica, quella dei partiti accusati di corruzione a ogni livello, e la cosiddetta Seconda Repubblica, nome attribuito convenzionalmente a tutto quanto è successo dopo l’incubo di Tangentopoli. I partiti politici riconducibili alla Prima Repubblica cambiarono la loro classe dirigente, cercarono nomi nuovi, persone la cui onestà potesse servire da garanzia per un “nuovo corso” che avrebbe richiamato gli elettori delusi. Nel frattempo, nacquero e si svilupparono nuovi partiti, che si proponevano come alternativa al vecchio sistema e che arrivarono a impugnare quel concetto, l’onestà, come una bandiera. La loro bandiera. Quel tormentone non è ancora finito. Ancora oggi molti esponenti politici si richiamano alla loro “onestà” per giustificare le loro scelte e – se possibile – scaricare ad altri la colpa dei loro errori.
Diventa allora necessario capire, al di là dello slogan, cosa sia l’onestà.
LA VERA ONESTA’
In genere associamo l’onestà all’etica. Una persona onesta è colei che agisce con rettitudine, attenendosi alle regole e seguendo determinate regole di comportamento nel rapportarsi al suo prossimo e a sé stesso. Potremmo allora associare l’onestà a una disposizione dell’animo, a un’attitudine. Ma, come diceva Kant “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”. Il paragone del filosofo di Koenigsberg non è improprio e allude a una ben precisa specificità dell’etica: come le leggi della fisica e dell’astronomia regolano il moto degli astri nel cielo sopra di noi, la legge morale regola i nostri comportamenti. In altre parole, non basta proclamarsi onesti se non si seguono le leggi dell’etica. E per seguire le leggi dell’etica bisogna prima di tutto conoscerle. Altrimenti siamo nel campo del più evidente velleitarismo. L’onestà, insomma, cessa rapidamente di essere una virtù morale, se non è accompagnata dalla conoscenza delle procedure e dal loro rispetto effettivo, non solo proclamato. Per fare un esempio, un ingegnere civile sarà anche una brava persona, ma non potrà dirsi “onesto” se non sa come si calcola un cemento armato. Un contabile non potrà dirsi onesto se non sa come leggere un bilancio. Ecco il grande equivoco dell’onestà: non è solo un intento, una pia aspirazione, ma un ben preciso modo di operare, sulla base della conoscenza tecnica e pratica della materia su cui si opera. Altrimenti ci toccherà parlare, più che di onestà, di dabbenaggine, semplicismo, eccessiva e infondata confidenza in sé stessi, sprovvedutezza e ingenuità. Non si può essere onesti e ingenui allo stesso tempo. Non funziona così. L’onestà è una virtù? Certo, ma lo è se e solo se è accompagnata dalla conoscenza, dall’esperienza e dal senso critico. Platone l’aveva ben capito quando disse che è possibile essere giusti solo se si conosce il bene. E’ dal 1992 che l’Italia si dibatte in questo equivoco. Fino ad arrivare a oggi, dove, è inutile negarlo, ci sono forti e fondati motivi per essere molto preoccupati per il futuro nostro e della nostra Nazione.
Allora, il primo passo che possiamo fare, come cittadini, è chiarire a noi stessi cosa sia l’onestà vera, per poi andare a cercare le persone veramente oneste da mettere nelle posizioni di responsabilità.
Marco Lombardi (giornalista e scrittore)