Ti cullano le note di “Amore che vieni, amore che vai Amore che fuggi, da me tornerai”, versi di Fabrizio de André o la dolce, sottile mestizia della resa totale nell’umiltà di “…poi mi son lasciato andare nell’amore” di Luigi Tenco. Ma questo è il colore e il calore di note italiane che possiamo accostare alla nostra memoria e non a un rapporto sentimentale tutto europeo, come quello narrato nel 1956 da Henri-Pierre Roché, LE DUE INGLESI, in scena fino a domenica prossima, 30 marzo, nella splendida cornice barocca del Teatro Litta, “descritto – come ebbe a dichiarare François Truffaut che con Jean Gruault ne curò nel 1971 la trasposizione cinematografica – con la “penna d’acciaio freddo e acuto” di un maestro dei sentimenti. E l’ambientazione di metà del racconto spiega la leggera nebbia che nell’ora e 45′ di spettacolo aleggia sul palcoscenico – il sontuoso sipario color rosso cremisi che viene alzato e abbassato a mano dal francese Claude Roc (Stefano Annoni) dalla graticcia, la migliore sulle scene milanesi, i paraventi, nere architetture contemporanee, tondeggianti nella parte superiore, a firma Nani Waltz e Michele Sabattoli, che hanno curato anche i costumi d’epoca, al tempo stesso pareti, labirinti o specchi per l’anima e, con un bianco gesso, per gli occhi in un arco temporale che dal 1899 arriva fin quasi a sfiorare lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. O ancora alberi immaginifici di un giardino a Parigi nel quale Claude può mimare in libertà al ralenti tiri di boxe e dove una carriola e un’altalena diventano i giochi innocenti di due adolescenti inglesi, le sorelle Brown, Anna (Maria Laura Palmeri) e Muriel (Leda Kreider). Ma forse, come svelerà negli anni nelle sue confessioni epistolari la piccola Muriel, tanto innocente non è perché la strana malattia alla vista di cui soffre fin da bambina e che le impedisce di gioire appieno della luce del sole costringendola a portare sempre una benda sugli occhi, pare causata da una pratica cui la puritana Muriel si abbandona. Fra le vie di Parigi e le coste del Galles si snoda una vicenda triangolare di cui Paolo Bignamini, regista dello spettacolo prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e che si inserisce nel progetto “Classici e scena oggi” a cura di Paola Ranzini, ha curato l’adattamento portando a conclusione il percorso intrapreso sull’asse d’equilibrio del trait-d’-union che imparenta cinema e teatro con Solaris di Andrej Tarkovskij nel 2017 e Hiroshima mon amour di Alain Resnais nel 2023. Introdotte da Sous les ponts de Paris di Yves Montand e chiuse da L’amour en fuite di Alain Souchon, le musiche e il sound design di Jacopo Bodini e de La Scapigliatura evocano la struggente atmosfera ondivaga tra la possibilità e l’impossibilità dell’amore, il sospiro, l’estasi, la passione, la vertigine di quello che senti nascere dentro di te, al quale non sei in grado di dare subito un nome, e l’immagine, la dimensione, il suono di ciò che si materializza al di fuori di te una volta metabolizzato e sedimentato il tutto. Forse Claude, Anna e Muriel non si amano l’un l’altro, pur se in momenti successivi, ma l’amore forse lo sognano, forse lo desiderano, forse lo vivono nelle parole che si scrivono in lunghe lettere. L’amore fisico, che arriverà infine gioioso e liberatorio, è breve, fuggevole. Ma cos’è questo sentimento inaspettato, che colpisce e prende di soppiatto, ci coglie di sorpresa, ci toglie il respiro e ci fa suoi interamente, totalmente, rendendoci incapaci di difesa, quasi di pensiero, facendoci capire che è lui il padrone delle nostre azioni e delle nostre intenzioni? Negli anni entrano nella vita di Claude, Anna e Muriel altri occhi, altri baci, altre professioni ma la nostalgia è viva, quasi fisica, lacera e strazia come non avremmo mai voluto né potuto immaginare, come un rimpianto eternamente presente nella nostra mente e nel nostro cuore. Vivete, non abbiate paura di vivere quello che il vostro corpo vi suggerisce se a comandarvi è davvero l’amore. Solo questa sia la vostra dottrina. Ma col tempo tutto sembra svanire nella nebbia: i colori, i profumi, gli slanci, la fame e la sete d’amore. Come all’inizio, Claude, Anna e Muriel si rincorrono nel giardino della loro adolescenza, si sfiorano, danzano, sembrano quasi giocare a mosca cieca, ignari di quello che li attenderà da grandi ma animati da una forza emotiva, dalla voglia di crescere. Il senso dello spettacolo, e forse anche della vita, è tutto qui: un sogno, un ricordo, un rimpianto, mentre sulla scena le luci stroboscopiche si spengono per lasciar posto a quelle di una sala gremitissima e generosa di applausi per il regista e per i bravissimi interpreti.
Elisabetta Dente