Il cognome tradisce origini diverse da quelle milanesi. Ma lui è nato qui ed è uno degli uomini e degli artisti che più incarnano l’anima di questa città. Cantautore, chitarrista e scrittore, Claudio Sanfilippo, 59 anni proprio oggi, rappresenta la milanesità nel senso più ampio del termine. Uomo intenso, legato alle tradizioni e al tempo stesso aperto e soprattutto attento ai cambiamenti continui del luogo in cui vive, una Milano che ieri come oggi anticipa e detta regolarmente i tempi, rispetto al resto d’Italia. La sua produzione musicale e letteraria è conosciuta non soltanto dagli esperti e dagli appassionati dei generi che attraversa, ma anche dal pubblico dall’orecchio e dall’occhio meno sensibile, che la sensibilità l’acquisisce man mano che affolla i locali in cui si tengono i suoi concerti e che scorre lentamente le pagine dei suoi scritti. Giusto per dire: nel 2013, insieme a Carlo Fava e Folco Orselli, ha dato vita a Scuola Milanese, un format narrativo e musicale che ha prodotto decine di serate alla Salumeria della Musica e ha accompagnato tutte le edizioni di Fuoricinema, mentre in ambito letterario vale la pena di ricordare almeno Fedeli a San Siro, scritto insieme a Tiziano Marelli (Mondadori, 2011) e Tango Milanese (Corsivi del Corriere della Sera, 2014).
Caro Claudio, tu sei un vero milanese, al di là delle origini siciliane di papà. Sei una persona adatta, quindi, a tracciare un profilo della nostra città, visto che la stai attraversando ormai da molti anni. Com’è cambiata e come sta cambiando, secondo te?
“Negli ultimi vent’anni è cambiata molto e anche velocemente. Tutto però è iniziato ben prima, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, quando il centro e le zone storiche hanno iniziato a trasformarsi da luoghi residenziali in luoghi di lavoro e di shopping. Da inguaribile romantico ho nostalgia del tempo in cui intorno a Piazza Duomo c’erano i panettieri, ma questo è stato il destino di tutte le grandi città occidentali. Milano ha sfruttato bene l’abbrivio dell’Expo e ha riconquistato alcuni primati culturali che negli ultimi decenni si erano un po’ persi. È diventata più bella e attraente; perfino alcune zone, che con la crisi industriale sembravano definitivamente depresse, come Lambrate, si sono rigenerate. Oggi è una città con tanti “centri” e nonostante provenga da Città Studi il luogo che oggi mi piace di più è la Darsena, il simbolo della “Milano città d’acqua”, un altro luogo che con l’Esposizione Universale è diventato più bello e accogliente. Poi, come avviene sempre, in ogni cambiamento ci sono i lati oscuri della medaglia”.
Tu lavori nel mondo della musica e della letteratura milanesi, due osservatori privilegiati sulla città. Ma sono davvero privilegiati, questi osservatori? Qual è, a tuo avviso, lo stato dell’arte, riguardo alla musica e alla letteratura, qui da noi? E quali contributi ha portato, secondo te (se lo ha portato) lo sviluppo della Rete e dei Social Network?
Lo stato dell’arte della musica è vivacissimo, a Milano c’è una grande comunità di musicisti di valore. Ma la musica non ha più il suo prodotto di riferimento (il disco) e la Rete, se da un lato aiuta ad aumentare la visibilità, da un altro determina un meccanismo perverso, basato unicamente sui numeri, sulla quantità. E questo produce inevitabilmente un deterioramento trasversale del gusto, dell’ascolto. Ha vinto il modello della musica gratis e quindi la qualità è un valore sempre più relativo. Basta vedere cosa accade durante molti concerti in piccoli locali, la musica “live” viene considerata un sottofondo sul quale si può parlare a volume altissimo, senza alcun rispetto per chi suona.
Abbiamo tanti piccoli locali e alcuni teatri molto belli, ma all’appello mancano i club; l’unico è il Blue Note, ma non ci sono più posti come il Capolinea, il Tangram o la Salumeria della Musica, luoghi che avevano un ruolo importantissimo per dare voce alla musica di qualità in ambienti costruiti appositamente per la musica. Internet, duole dirlo perché sarebbe una grandissima opportunità, ha messo in difficoltà tanti bravi artisti che non hanno voglia, tempo o capacità di maneggiarne gli strumenti. Così capita sempre più frequentemente che un musicista scarso abbia più occasioni di uno bravo, aiutato dal fatto che l’affollamento dell’offerta abbassa ogni giorno di più la soglia di attenzione del pubblico. Non esiste più alcun filtro “editoriale”, il ruolo che nel bene e nel male hanno rivestito le case discografiche e che ormai sono ridotte a fare da management a quei pochi che emergono dai talent-show. Insomma, si creano opportunità, ma si genera anche una confusione letale e un conformismo dilagante nei gusti dominanti. Aggiungiamo anche che in Italia la musica non è prevista nei programmi scolastici, liceo musicale a parte. Nel paese di Verdi e dei liutai sembra un paradosso, ma è così. C’è molto da fare, quindi. L’editoria invece finora si è salvata, forte dell’esperienza nefasta dell’mp3. E’ riuscita a scansare il pericolo della gratuità. Il diritto d’autore, per ora, è salvo. È successo grazie alla classe dirigente dell’industria editoriale, che era ed è largamente superiore rispetto a quella musicale e che è storicamente un settore con un grado di competenza molto più alto. Poi, certo, non sono tutte rose e fiori; stampare un libro oggi costa molto meno, ma l’affollamento delle proposte è spaventoso e ha abbassato, anche qui, sia la qualità media delle pubblicazioni che i ricavi degli scrittori. Non sono più i tempi in cui a pubblicare libri erano esclusivamente scrittori e poeti, oggi la concorrenza più pericolosa per un artista della parola può arrivare da una quindicenne fashion blogger”.
Movida e musica all’aperto: come stiamo a Milano?
“Non frequento la movida, ma credo che quella, a sentire i miei figli, vada benissimo. La musica all’aperto, per quanto vedo io, molto meno. Sarebbe bello uscire dal concetto della “Notte della Musica”, che somiglia al “Black Friday” di Amazon, dove in poche ore si butta nel mucchio una tonnellata di roba. Mi piacerebbe vedere qualche iniziativa permanente, che restituisca alla musica dal vivo una dimensione di qualità. Gli spazi ci sono. Manca un pensiero strategico che valorizzi il patrimonio sommerso, che è enorme. È qualcosa di cui si dovrebbe occupare la politica. Poi, come sempre, ci sono le eccezioni di alcuni locali che provano ad uscire dalla logica del “tributo”, che cercano di valorizzare le proposte originali. La specie però è la stessa degli artisti che tengono botta facendo grandi sacrifici. Il modello è Don Chisciotte, per entrambi”.
Ha ancora senso parlare di musica milanese? Non è un po’ fuori dal tempo ascoltare canzoni in dialetto meneghino?
“La musica in milanese, come quella in inglese, in croato, o in swahili, è musica. Per sua natura trascende gli idiomi, la musica è il più sensoriale tra i linguaggi dell’arte. Anzi, non solo ha senso, ma va difesa e incoraggiata perché nasconde veri e propri tesori. Il rischio della cultura global è proprio l’appiattimento e bisogna combatterlo. Le lingue locali, i dialetti, hanno una forza espressiva speciale, che le lingue ufficiali, per quanto dense di storia e letteratura, non possono avere. Se vado a Barcellona trovo gli stessi negozi di Milano, Roma, Londra e Copenaghen, ma sono felice di poter ascoltare una canzone in catalano”.
Milano ha sempre avuto un respiro più ampio dei suoi confini. Tutto quello che la riguarda interessa sia a livello nazionale che internazionale. Pensi che sia in grado, anche oggi, di interpretare questo ruolo? Oppure è stata “colonizzata”, nel senso che questo interesse esterno ha prodotto investimenti economici e finanziari che hanno portato imprenditori, finanzieri e banchieri ad impadronirsene?
“La vocazione di Milano è quella del porto. Nel 1953, sette anni prima che nascessi io, la Darsena era al tredicesimo posto nella classifica degli scali nazionali per il traffico di merci e addirittura al terzo posto per tonnellaggio, prima che si trasformasse in luogo turistico. Milano non può e non deve abiurare alla sua natura di luogo d’incontro, di scambio, è nella sua cultura profonda. Il pericolo della colonizzazione è alto, ma qui il discorso andrebbe spostato nell’ambito dei modelli economici. Il capitalismo di questi anni è feroce e vorace e non credo che oggi la politica abbia forze sufficienti per arginarlo, ormai è l’economia che ne determina le azioni. E’ un discorso lunghissimo, che riguarda il potere”.
Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano? E in che modo può o potrebbe influenzare la produzione musicale e letteraria milanese?
“Milano è la città italiana che da sempre accoglie e metabolizza le persone che la scelgono e da questo punto di vista continua ad essere un modello. La cultura dell’incontro fa parte della sua natura, è un laboratorio dinamico per tutti gli ambiti artistici, ma l’arte vive di quello che c’è, che sia un crocevia di culture diverse o l’isolamento di eredità tradizionali, un artista tiene conto di quello che gli capita intorno. L’immigrazione non è né bella né brutta, è un dato di fatto generato da situazioni economiche e geopolitiche. Non dimentichiamo che nella maggior parte dei casi riguarda gente che è costretta ad emigrare per campare. Quindi non ne faccio una bandiera né un valore, piuttosto credo che sia giusto affrontarla con il massimo dell’apertura, che a Milano non è mai mancata. Evitando, se possibile, di trasformarla in un terreno demagogico”.
Per concludere, Claudio: Come vedi il futuro di Milano, in relazione anche all’attuale situazione italiana e internazionale?
“Milano deve ridare una chance alla classe media, quella più colpita dalle crisi degli ultimi anni, perché i periodi più fecondi della storia cittadina coincidono con la vitalità di quella “terra di mezzo”. E’ il segreto della cultura interclassista che l’ha sempre contraddistinta e che ha arricchito lo spirito di apertura, di accoglienza. Pochi ricchi e molti poveri non aiutano. E siccome Milano ha la vocazione ad essere città-pilota e laboratorio di idee, credo che nelle sue strade ci siano tutti gli ingredienti per fare un buon lavoro, per fare in modo che si produca ricchezza per la gente che oggi ha di meno. Speremm, come si dice in milanese”…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)
Claudio Sanfilippo – Ilzendelswing