E’ siciliana per sbaglio, perché Licata, un grosso centro dell’Agrigentino, le ha dato soltanto i natali. Dopo appena quattro mesi di vita, infatti, si è ritrovata, inconsapevolmente fortunata, fra le braccia della sua Milano, la città che tanto ama, che tanto le ha dato e per la quale prova profonda gratitudine. Una gratitudine che si manifesta anche e soprattutto attraverso i suoi due libri di successo, “Quando Milano era da bere” e “La fine delle bugie”. Angelica Russotto è una femmina siculo-milanese dai tratti caratteriali molto forti, ma con un cuore tenero e sempre pronto a trasmettere alle sue mani quelle emozioni e quei sentimenti che traspaiono chiaramente dalle pagine dei suoi scritti. “Credo che più che le origini (che pur lasciano nel nostro Dna tracce indelebili) valgano i luoghi dove siamo cresciuti, dove abbiamo affrontato la realtà, l’istruzione scolastica, il lavoro e le amicizie”, esordisce la scrittrice. “Milano mi ha forgiata, mi ha fatto conoscere persone interessanti, di ogni ceto sociale, mi ha fornito una lente critica che forse non avrei avuto in un altro luogo, soprattutto grazie al mondo lavorativo che ho frequentato: l’editoria, le aziende multinazionali e in particolare le agenzie di comunicazione e di pubblicità, tanto che ne ho fondato una mia, prima di passare totalmente alla scrittura. I miei due romanzi sono ambientati negli anni ‘80, in quella cosiddetta “Milano da bere” di cui ancora oggi si parla moltissimo, spesso mitizzandola. I racconti partono da esperienze di vita della mia gioventù, di cui Milano è stata il palcoscenico, crescendo e cambiando insieme alle due protagoniste. E sto scrivendo un terzo libro, che partirà questa volta non dalla “Milano by night” di quegli anni e dei locali eleganti e alla moda, ma dalla città di oggi, dalle periferie milanesi, che sono spesso il triste palcoscenico di una grande solitudine umana”.
Com’è cambiata e come sta cambiando Milano, secondo te?
“Guarda, la Milano di oggi è davvero molto diversa dalla mia Milano degli anni ‘80, quelli della mia gioventù. Nonostante li abbiano definiti “anni di plastica” erano anni più gioiosi; venivamo dagli anni di piombo, c’era una gran voglia di lasciarsi alle spalle quel periodo buio, c’era una generosità contagiosa, non c’erano i telefonini, non c’erano i social network, ci si incontrava, ci si parlava guardandosi negli occhi. Ma nei miei scritti non ho tracciato un ritratto mitizzato di quell’epoca, ho evidenziato anche gli aspetti meno belli, come ad esempio l’uso smodato di cocaina, la superficialità e il benessere ostentato”.
Tu hai lavorato per diversi anni nel mondo della pubblicità, un osservatorio privilegiato sulla città. Ma è davvero privilegiato, questo osservatorio? Qual è, a tuo avviso, lo stato dell’arte, riguardo alla pubblicità e alla comunicazione cittadine? E quali contributi ha portato (se lo ha portato) lo sviluppo di Internet e dei Social Network?
“Credo di sì. Il mio lavoro mi ha dato modo di entrare in mondi all’apparenza felici e di grandi soddisfazioni. Ho conosciuto molti manager, molti dirigenti di aziende importanti votati alla carriera e ai soldi a tutti i costi. Spesso sono stati consumati da questa corsa all’oro, perdendo così l’occasione che solo la giovinezza ci dà: l’incoscienza e il desiderio di esplorare, chiusi in un mondo lavorativo che tra target e obiettivi da raggiungere gliel’ha fatta perdere di vista. I Social Network hanno portato molto e hanno tolto altrettanto, come ho detto prima. Oggi è più semplice farsi pubblicità e farsi conoscere ed io per prima li utilizzo per divulgare i miei romanzi. Allo stesso tempo, però, ci hanno impigriti e isolati, chiusi dentro uno smartphone o un computer”.
Milano ha sempre avuto un respiro più ampio dei suoi confini. Tutto quello che la riguarda interessa sia a livello nazionale che internazionale. Pensi che sia in grado anche oggi di interpretare questo ruolo, oppure è stata “colonizzata”, nel senso che questo interesse esterno ha prodotto investimenti economici e finanziari che hanno portato imprenditori, finanzieri e banchieri ad impadronirsene?
“Sono successe entrambe le cose. Ricordo un paio di incontri avuti a New York nei primi anni ’90. Quando dicevo di essere di Milano mi veniva detto: “E’ una città che adoriamo, è la città italiana che sentiamo più vicina alla nostra metropoli.”. E poi giù con l’elenco dei marchi di moda che ci hanno resi famosi nel mondo, da Armani, a Valentino, a Versace. Oggi questi marchi sono quasi tutti passati in mani straniere e questo è un vero peccato. Milano in questi anni ha suscitato gli appetiti di molti investitori internazionali, intere zone della città sono state comprate, per esempio, da arabi e cinesi. La città oggi è più visitata dai turisti, ma nello stesso tempo si è omologata a molte altre città internazionali, con gli stessi negozi, le stesse vetrine, gli stessi prodotti che si trovano ovunque. Questo ha portato denaro, però l’ha un po’ spersonalizzata. Penso a cos’era, sempre per fare un esempio, il quartiere di Brera, “il quartiere degli artisti”, negli anni ’80. C’era un’intimità che oggi si è innegabilmente persa. E gli artisti di strada, purtroppo, non ci sono più”.
Ritieni Milano una città a misura di donna? Ambiti come la cultura, la sicurezza e il lavoro privilegiano la condizione femminile?
“Credo che Milano per le donne che vogliono realizzarsi nel lavoro sia stata sempre all’avanguardia, nel nostro Paese. Io per prima ho avuto opportunità che forse non avrei avuto in un altro luogo. L’apertura mentale di Milano mi ha resa una donna libera di potermi esprimere. E sul piano culturale non ha eguali per le donne: manifestazioni, incontri e dibattiti ci offrono ogni giorno spunti di riflessione e di approfondimento”.
Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano? In fondo, anche tu sei un’immigrata…
“L’immigrazione incontrollata ha fatto finora grandi danni. I miei genitori sono immigrati dalla Sicilia in tempi in cui c’erano tante opportunità di lavoro, tanta voglia di rimboccarsi le maniche e di integrarsi. Oggi temo che stia avvenendo il contrario. Non voglio generalizzare, ma questa voglia di integrarsi spesso non la vedo, anzi. Al contrario, mi pare evidente il rischio che ci vengano imposti sempre di più un credo religioso e un arretramento culturale rispetto alle conquiste ottenute con grande fatica, soprattutto da noi donne”.
Per concludere, Angelica: come vedi il futuro di questa città, in relazione anche all’attuale situazione italiana e internazionale?
“Non ho la sfera di cristallo, ma il futuro è già in atto ed è sotto i nostri occhi. Spero che ci sia la voglia, da parte delle Istituzioni, di salvaguardare e promuovere nel mondo la nostra cultura e la nostra capacità creativa. Milano può ancora essere un esempio, nonostante crisi finanziarie ed economiche dettate da molti egoismi “globali” abbiano ridotto le possibilità di mettersi in gioco per tanti giovani. Ci vuole molta tenacia e perseveranza, però in fondo ce ne voleva anche negli anni ‘80. Insomma, ci sono corsi e ricorsi della Storia. Forse questi anni fanno davvero schifo, ma sono gli anni della nostra vita. Non sciupiamoli nella passività dell’indignazione: coraggio, usciamo da casa, usciamo dal fosso”…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)