Ha un impianto cinematografico MATTEOTTI (ANATOMIA DI UN FASCISMO) di Stefano Massini, andato in scena nei giorni scorsi al Teatro Elfo Puccini. Le luci si accendono a illuminare un palcoscenico arredato con pochi praticabili che all’occorrenza verranno smontati e rimontati per creare un divano, una poltrona, una parvenza di intimità domestica. Sui toni di un blu smorzato mentre le immagini proiettate sullo sfondo, laddove a colori, hanno la delicatezza e la grazia degli acquarelli di Aldo Raimondi. Dal fondo avanza la voce narrante di questo monologo, Ottavia Piccolo, in un elegante tailleur pantalone color bordeaux. Toglie la giacca e, in camicia grigio chiaro, entra subito nell’atmosfera del pomeriggio assolato di un martedì della tarda primavera del 1924, come solo la città di Roma sa regalare. Sono le 16.30 del 10 giugno. Sola sul proscenio descrive nel dettaglio le figure e i volti dei passanti, degli avventori di un bar, in particolare di due contadini che, fermatisi a una fontanella per bere, sentono dei rumori provenienti da una macchina grossa, di quelle da ricchi. Al suo interno scorgono alcuni uomini che si agitano, uno soprattutto cerca di divincolarsi e di richiamare l’attenzione dall’esterno. Mentre l’auto si allontana in velocità uno degli uomini abbassa un finestrino e getta qualcosa per terra. I due che hanno assistito alla scena raccolgono quella che più tardi al Comando di Polizia risulterà essere la tessera parlamentare di Giacomo Lauro Matteotti, deputato del Regno d’Italia nel Partito socialista. Il rapimento si è compiuto e a breve avverrà anche l’omicidio per mano di cinque membri della Polizia politica fascista, capeggiati da Amerigo Dumini, che, dopo averlo pestato a sangue Matteotti, lo uccidono accoltellandolo. Il tutto mentre Velia Titta, la moglie, e i tre figli Giancarlo, Gianmatteo e Isabella, ignari, attendono il rientro a casa per cena di Giachi. Ma chi era e chi è stato Giacomo Matteotti prima della sua prematura morte? Stefano Massini entra subito nel vivo, coadiuvato dalle belle musiche di Enrico Fink, ora carezzevoli ora incalzanti, eseguite dai Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo. Là dove il Po non è più fiume e diventa qualcosa che non sai cos’è. Siamo a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, dove Matteotti era nato il 22 maggio 1885 e dove trascorre la sua adolescenza e la sua giovinezza. Si iscrive ben presto nelle file del Partito Socialista e verrà soprannominato dai suoi compagni di partito Tempesta per il suo carattere battagliero e intransigente. Tutt’altra pasta però rispetto all’amico ma avversario politico Italo Balbo, il Contessino. Matteotti infatti si schiera fin da subito dalla parte dei più deboli. Nei suoi articoli toglie la maschera al fascismo definendolo un camuffamento, un effetto ottico che si nutre di paura rispondendo alla paura con la violenza, la sua risposta immediata alla paura. Il fascismo, secondo Matteotti, che ne comprende fin da subito la potenza eversiva, nasce sempre per difendere qualcuno da qualcosa. “Il pericolo più grande, la malattia che fa morire un uomo, è quella che non senti crescere”. È instancabile, sempre fedele a se stesso, in veste di studioso o di amministratore, non perde occasione per denunciare nei suoi scritti e nei suoi discorsi che cosa è veramente la nube nera che si è abbattuta sull’Italia. Fino all’apoteosi del 30 maggio 1924 quando nel suo discorso alla Camera dei Deputati denuncia tutte le illegalità commesse dai fascisti per vincere le elezioni del 6 aprile, nonostante le frequenti e ripetute interruzioni da parte dei deputati fascisti. Integro, coraggioso, coerente. Matteotti sapeva di rischiare la vita al punto che, al termine del discorso, disse a Giovanni Cosattini, che era seduto accanto a lui: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. E veniamo all’epilogo. Pochi giorni dopo una signora vestita di nero, elegante, molto dignitosa ma dall’aria triste, viene ricevuta dal Duce. È Velia Titta, la moglie di Matteotti che sa già di esserne la vedova. A Mussolini che la rassicura sul fatto che non lascerà nulla di intentato per ritrovare l’Onorevole, non solo dichiara di essere già a conoscenza della morte del marito e che non tollererà la presenza di nessun politico o rappresentante del Partito al suo funerale. Si apre di nuovo davanti a noi l’immagine iniziale del caldo pomeriggio del 10 giugno 1924. E, come se la macchina da presa spostasse di pochi metri l’angolazione dell’inquadratura, nel racconto di Massini ora a parlare sono due ragazzini che mentre giocano su un muretto vedono una grossa auto accostarsi a un uomo che sta percorrendo il Lungotevere Arnaldo da Brescia. Due uomini scendono dalla macchina, lo afferrano ma poiché Matteotti si divincola, un terzo uomo esce dalla vettura, lo malmena e i tre hanno la meglio costringendolo a salire in macchina dove continuano a infierire su di lui a suon di pugni e calci. I due ragazzini hanno così assistito al rapimento. Ottavia Piccolo indossa nuovamente la giacca e, mentre si abbassano le luci, scende il silenzio in sala. Solo per pochi istanti però perché dopo 70 minuti densi di pathos partono gli applausi per l’intensa interpretazione di Ottavia Piccolo, per l’attenta regia di Sandra Mangini e per la potenza di questo testo, eco doverosa e necessaria delle parole e delle azioni di un eroe.
Elisabetta Dente