È uno dei rari esemplari di milanese figlia di milanesi, una sorta di specie protetta, ormai, nella nostra metropoli sempre più multietnica. E pur avendo conseguito una laurea in Ingegneria Elettronica (con indirizzo Informatico) al Politecnico e poi lavorato per lungo tempo alla IBM ha continuato a coltivare la sua passione per le materie umanistiche, la scrittura e la traduzione letteraria, fino ad esordire ufficialmente, quest’anno, in ambito editoriale, con il romanzo “L’uomo nel mezzo”, pubblicato da Paginauno. Alessandra Patriarca è una donna, una madre e una scrittrice intensa, ricca di sfumature umane e culturali che affascinano il suo interlocutore. “Il mio amore per la Letteratura è antico, caro Ermanno”, esordisce sospirando. “Fin dai tempi del liceo (ho frequentato lo scientifico al Donatelli), incoraggiata sia dalla famiglia sia dalla scuola, ho sviluppato una buona capacità narrativa, soprattutto nella forma di racconti brevi, calembour, poesiole satiriche, limerick, comunque per solo piacere personale o da condividere con qualche amico. I primi tentativi di scrivere un romanzo si arenavano, purtroppo, già dopo i primi capitoli. Poi, nel 2016, intenzionata a dare una svolta ai miei passatempi letterari, vengo più seriamente a contatto con il mondo editoriale attraverso Paginauno. Due anni dopo contribuisco con la traduzione di due racconti di Thomas Wolfe alla pubblicazione della raccolta “Un’oscura vitalità,” a cui fa seguito il romanzo “Il figlio perfetto” dell’autrice neozelandese Catherine Chidgey. Nel 2020, infine, co-traduco per Biplane Edizioni “Una vita di giorni impossibili” dell’australiana Tabitha Bird. E adesso sono qui, a parlare con te del mio primo romanzo e non solo. La trovo una cosa meravigliosa, proprio come la nostra città”.
Il tuo libro è un thriller psicologico, mozzafiato, accarezzato da una scrittura piacevolissima e neanche a dirlo ambientato a Milano. Vuoi accennare brevemente ai suoi contenuti, stimolando la curiosità dei lettori?
“Si tratta di un romanzo che ritengo molto attuale (potremmo dire contemporaneo), in cui Luca Strada, un quarantenne bello, brillante e con un lavoro di successo nel mondo dell’arte, si trova improvvisamente a confrontarsi con un ignoto persecutore che lo obbliga a fare i conti con se stesso e a mettere in discussione molti dei punti fermi della sua vita. Intorno al protagonista si muovono svariati personaggi, differenti per età ed esperienza: l’amico fraterno Pietro, con la figlia diciannovenne Wendy, la vicina di casa quasi ottantenne Dora, i coniugi Barca, gaffeur professionisti, la giovane web designer Annina. Le vicende che li coinvolgono sembrano quasi degli esperimenti sociali e mettono a nudo le loro debolezze, smascherandoli. Credo che i lettori troveranno molti spunti di riflessione su quante cose nascondiamo agli altri e a noi stessi, e che si appassioneranno nell’accompagnare il protagonista alla ricerca del suo misterioso persecutore”.
Quanto si presta, secondo te, una città come Milano, a fare da sfondo a un thriller, al di là della comodità (diciamo così) di viverci e di non dover quindi immaginare luoghi diversi?
“Milano è una città variegata e complessa, che custodisce gli interessi e molti segreti della finanza e della politica, in cui hanno sede i colossi della tecnologia e dove nascono ogni giorno nuove aziende digitali e start up. Tante idee innovative, tante speranze e altrettanti sogni infranti, straordinari successi e fama, ma anche corruzione, sopruso, nepotismo. Dove si può trovare un terreno più favorevole per sviluppare un intreccio avvincente?”.
Tu sei una milanese doc, quindi una persona indicata a tracciare un profilo reale e veritiero di Milano. Com’è cambiata e come sta cambiando, a tuo avviso?
“Tieni presente che io ho frequentato il liceo nella seconda metà degli anni ‘70, mentre si viveva l’onda lunga del ’68, l’affermazione del Movimento femminista, il referendum sul divorzio, le radio libere, gli articoli di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera, gli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame alla Palazzina Liberty, l’ultimo concerto di Bob Marley a San Siro. A Milano si sentiva sulla pelle l’urgenza del cambiamento, la sete di idee, di cultura, di informazione. Poi c’è stato il cosiddetto riflusso, che per molti, oggi, è solo un fastidioso inconveniente gastrico da curarsi con una pastiglia di Maalox. Il disimpegno, il ripiegamento nel privato, la disaffezione per la politica hanno preso il sopravvento e Milano è diventata la culla dei paninari, dell’ascesa di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, del rampantismo opulento e sfrenato. Nel corso dei decenni a seguire il fenomeno si è declinato in vari modi, ma nessuno, a mio parere, in termini migliorativi. Ritengo però che sia cominciata un’inversione di tendenza con l’avvento di Giuliano Pisapia e Beppe Sala e con l’assegnazione a Milano di responsabilità ed eventi di risonanza mondiale come l’Expo del 2015 e le prossime Olimpiadi Invernali del 2026 (peccato che ci sia sfuggita l’Agenzia Europea del Farmaco), oltre agli investimenti nell’architettura urbana, i nuovi musei e i moltissimi progetti culturali”.
Non posso non farti una domanda sull’emergenza sanitaria, politica, economica e sociale che purtroppo stiamo ancora vivendo, anche in virtù della tua specializzazione informatica. Il fatto di avere a disposizione la tecnologia (in particolare internet e i social network), rispetto a situazioni simili vissute in passato dall’Umanità e con tutte le contraddizioni legate all’utilizzo, è stato un vantaggio o paradossalmente un problema?
“La pandemia ha evidenziato l’inadeguatezza tecnologica della Pubblica Amministrazione e di molte aziende, anche di grosse dimensioni, e in questo Milano non è stata migliore di tante altre realtà nazionali. Pensiamo, ad esempio alla mancanza di infrastrutture adeguate alla didattica a distanza. E ti assicuro che molte banche e imprese italiane (anche quelle con respiro internazionale) hanno dovuto acquistare migliaia di laptop e implementare in fretta e furia network e processi adeguati a far fronte all’emergenza perché non avevano nemmeno mai pensato di fornire ai propri dipendenti strumenti di flessibilità per il lavoro da casa. In questo l’emergenza sanitaria ha contribuito a scardinare un modo di pensare, che è tutto italiano, per cui se il dipendente non è in sede e sotto il mio sguardo diretto allora non lavora e non produce. Quindi, ben venga la digitalizzazione che ne è conseguita. È chiaro, però, che l’utilizzo forzoso e totalizzante della tecnologia ha creato filtri e disuguaglianze per diverse categorie di persone, con effetti psicologici in certi casi devastanti. Pensiamo agli anziani, poco abituati agli strumenti digitali, alle difficoltà relazionali dei bambini e degli adolescenti, privati per due anni del contatto e dello scambio fisico con gli amici, e anche a certe interpretazioni estreme di smart working, che hanno in pratica annullato la distinzione tra il tempo del lavoro e quello della vita privata”.
In conclusione, Alessandra: quanto cambierà (se davvero cambierà) lo stile di vita milanese, dopo la pandemia? Finora siamo stati costretti a cambiarlo, visto che nella nostra città viviamo soprattutto di relazioni, di incontri che diventano occasioni e progetti, mentre negli ultimi due anni abbiamo dovuto organizzarci diversamente, con i social network e le video chiamate. E oggi, invece, che si comincia ad intravedere la fine di questa anomala situazione?
“L’impossibilità (e la paura) di incontrarsi ci ha resi di sicuro più selettivi ed esigenti nel coltivare i rapporti e le relazioni, perché abbiamo capito chi ci è mancato davvero e chi era, diciamo così, “facoltativo”, e credo che erediteremo questa tendenza anche per il futuro, nel bene e nel male. Abbiamo anche avuto il tempo di coltivare nuovi interessi e passatempi, che forse ci permetteremo di tirare fuori qualche sogno dal cassetto, da sviluppare nel prossimo periodo. Io mi auguro davvero che si siano un po’ modificate le nostre priorità e che nei prossimi anni daremo più spazio a temi e valori importanti, come lo sviluppo di città più inclusive, l’attenzione all’ambiente in cui viviamo, l’istruzione, lo studio, la qualità delle informazioni, e che premieremo anche nella politica e nella società chi dimostrerà di avere a cuore queste priorità. L’essere rispetto all’avere, insomma. Credo che in questo Milano possa rappresentare un elemento trainante e confido molto anche nelle giovani generazioni”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)