“Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato”. Parole forti, che da sole danno a MORO: I 55 GIORNI CHE CAMBIARONO L’ITALIA tutto il senso di una tragica vicenda che appartiene, appunto, all’intero Paese. Una vicenda alla quale si dedicò anima e corpo il giudice Ferdinando Imposimato dal momento in cui gli furono affidate le indagini, solo il 18 maggio 1978, però, cioè nove giorni dopo la morte dello statista. Scritto nel 2009 dal magistrato campano (che lo ha rivisto e rimaneggiato fino alla sua morte, avvenuta il 2 gennaio 2018) e da Ulderico Pesce, che ne è anche interprete e regista, il testo (in scena anche stasera, al Teatro Menotti) getta luce sulle molte ombre che si sono addensate sulla vicenda fin dal principio. Nel racconto scenico la prima domanda se la pone Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, uno degli agenti della scorta uccisi, quando le immagini della strage irrompono in casa sua dal televisore Mivar, nella bella mattina di sole del 16 marzo 1978. Al polso che si intravede da sotto il lenzuolo che ricopre il corpo c’è l’orologio che Ciro aveva regalato al fratello nel giorno della Cresima. Da qui, dal suo dolore e dalla sua rabbia, parte la ricerca della verità. Si rivolge al giudice Imposimato, che ben presto arriverà alla conclusione che la morte di Moro e dei membri della scorta è stata “assecondata” dai più alti esponenti dello Stato italiano, con la collaborazione dei Servizi Segreti americani. Ma la rabbia e il dolore appartengono anche ad Adriana, sorella di Francesco Zizzi, un altro agente della scorta ucciso nel suo primo giorno di lavoro. L’agente titolare, infatti, si era messo in ferie proprio il giorno precedente. Ma questa non è l’unica “stranezza”, ve ne sono altre, come il fatto che le indagini fossero state affidate al giudice Imposimato, appunto, soltanto nove giorni dopo la strage. Da una luce bianca che illumina l’intera scena arredata semplicemente con alcuni televisori Mivar si passa a una luce verde diretta su Pesce. Prosegue il suo monologo fra sentimenti contrastanti: da un lato il ricordo di momenti felici della vita nei campi, da un altro lato la consapevolezza di un momento tragico di cui non si sa prefigurare la fine. Altro fatto emblematico è la creazione, circa due mesi prima il rapimento dell’Onorevole Moro, dell’Ucigos, un organismo di Polizia speciale alle dirette dipendenze del ministro dell’Interno, che andrà a sostituirsi all’Ispettorato Antiterrorismo guidato da Emilio Santillo. Infine, lapidaria, la dichiarazione di Steve Pieczenik. un esperto di terrorismo inviato segretamente in Italia dal governo americano per la gestione del Caso Moro. Se l’Onorevole Moro avesse fatto certe rivelazioni, ci si sarebbe trovati davanti all’interrogativo se dovesse vivere o morire. Un testo di impegno civile, questo, dedicato ad Aldo Moro come i precedenti “FIATo sul collo: la lotta degli operai di Melfi”, o “Storie di scorie”, che Ulderico Pesce, ma all’anagrafe Ulderico Biagio Franco, non si stanca di riproporre sui palcoscenici di varie città, così come faceva il nonno, arrotino in vari paesi della Basilicata, della Calabria, della Puglia e della Campania, che mentre “ammolava” i coltelli raccontava storie di anarchici, antifascisti, operai e braccianti. I televisori Mivar sulla scena sono i testimoni muti, ma fedeli di quanto avvenne sul finire degli Anni ‘70. Pesce scosta con delicatezza e rispetto le lenzuola che ricoprono gli apparecchi: esse recano le foto degli agenti. Immagini forti, per un pubblico che ha dimostrato di apprezzare l’impegno di un attore straordinario, bravissimo, strepitoso…
Elisabetta Dente