Al Teatro Franco Parenti COSE CHE SO ESSERE VERE di Andrew Bovell. Un testo di grande impatto emotivo, che penetra tutti i sentimenti e provoca una grande commozione

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Lo squillo del telefono scandisce l’inizio e la fine dello spettacolo: una vita che torna, una vita che se ne va. E in mezzo, i nomi delle stagioni proiettati sull’elegante sipario blu sullo sfondo racchiudono e condensano nell’arco temporale di un anno le vicende personali di una famiglia piccolo borghese di Hamlet Cove nell’Australia meridionale, terra d’origine dell’autore di COSE CHE SO ESSERE VERE, nonché attore, sceneggiatore per tv, teatro e cinema e produttore Andrew Bovell, pluripremiato e già rappresentato in tutti i Paesi di lingua Inglese e ora per la prima volta in Italia al Teatro Franco Parenti dall’altro ieri sera a domenica prossima, 3 novembre, per la regia di Valerio Binasco, che come dichiara Andrée Ruth Shammah, deus ex machina del Teatro, “da attore strepitoso qual è, che qui impersona Bob, sa far recitare molto bene gli attori”. Il tempo sembra scorrere in una quotidianità a tratti pigra e a tratti frenetica, nella villetta dei coniugi Bob e Fran Price, che assistono lei, ancora attiva nel suo ruolo di infermiera, lui neopensionato, alla lenta e faticosa costruzione di una vita, non solo professionale, da parte dei loro figli. Quando, a scompigliare gli ordinati vasi di fiori e piante che adornano l’interno di uno studio e di una cucina ancorati a una pedana girevole, nel giardino antistante irrompe Typ, la piccolina di casa, al rientro da un tour cultural-psicologico nelle maggiori capitali europee. Non vuole rovesciare sui genitori e sugli amati fratelli il proprio disagio perché se lo studio e il lavoro possono attendere, l’amore invece, per il quale Lyn si sentiva pronta, l’ha già disillusa. Ma avverte già, dopo i primi abbracci, che la serenità domestica che aveva lasciato alle spalle non è più così tersa e che inizia a scorgere le prime crepe nei rapporti. E così le vite dei sei personaggi perdono a poco a poco le foglie come le piante ad alto fusto del giardino. Papà Bob vigila sulle attività di Ben, di Mark e della loro sorella maggiore, mentre mamma Fran è perfettamente conscia del suo ruolo di multitasking woman. La sorpresa è dietro l’angolo delle loro vite, che Typ vede ora nitidamente: non sa spiegarsi da che cosa traggano origine le liti in famiglia, mentre comincia a conoscere il dolore. Ben si è lasciato irretire dalle automobili di lusso e dal suo posto di lavoro in banca non esita a sottrarre denaro dai conti correnti dei clienti, mentre a Mark tocca il compito più difficile: spiegare ai genitori che intraprenderà a breve una terapia ormonale per cambiare sesso. La figlia maggiore forse lascerà la grigia sicurezza del suo matrimonio per inseguire un altro amore. I toni si scaldano, i sentimenti reggono, ma le tensioni si fanno sentire. Anche la più solida presenza, quella di mamma Fran, sembra non reggere il peso di tante situazioni ingarbugliate, quando riceve la lettera di un paziente affettuoso quanto discreto per il quale in passato aveva nutrito un sincero amore mai esplicitato, mai consumato, ma sublimato nell’ascolto di “Famous Blue Raincoat” di Leonard Cohen, sdraiati l’uno accanto all’altra sul letto. Fran non ha mai abbandonato il suo Bob, i quattro figli e l’amato giardino, che anzi ora vuole ridisegnare con nuovi arbusti e nuove piante aromatiche. Al contrario, Lyn è pronta a tentare di nuovo l’avventura iscrivendosi a un corso letterario nella lontanissima Brisbane, piantando in asso la scuola interrotta e la famiglia, la sua forza, la sua corazza. Tutti sanno bene quali sono le cose vere in questo testo bellissimo (co-prodotto dai Teatro Stabile di Torino, Bolzano e Veneto), nel quale non si smette mai di parlare d’amore, nonostante le intemperanze di Ben e le alzate di tono di Bob. Non si smette mai di ricorrere a quel punto di riferimento inossidabile che è la figura materna, una straordinaria Giuliana De Sio, che l’11 novembre prossimo riceverà il Premio della Critica da parte dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e che proprio sulle tavole del Franco Parenti (allora Salone Pier Lombardo) debuttò nel lontano 1978 in LA DOPPIA INCOSTANZA di Marivaux, diretta da Andrée Ruth Shammah, o di ascoltare le battute di Bob. L’amore non è mai troppo e non è mai abbastanza. Fran muore all’improvviso, una notte. La sua famiglia è di nuovo tutta riunita, attraversata da quel filo invisibile, ma fortissimo, che irrompe nelle loro vite, così come nelle vite di ciascuno di noi inaspettato, all’improvviso, senza chiedere permesso. Accogliamolo a braccia aperte, senza avere paura delle nostre fragilità, di essere umani, di mostrarci vulnerabili. I sentimenti sono l’unica certezza che siamo capaci di creare: non soffochiamoli, non disperdiamoli, ma accogliamoli con gratitudine perché sono gli unici a farci sentire vivi. Un vero successo per tutti gli interpreti, con numerose chiamate alla fine…

Elisabetta Dente