Al Piccolo Teatro il MAGAZZINO 18 di Simone Cristicchi. Il dramma dell’esodo forzato degli italiani di Istria e Dalmazia in parole e musica

Milano Arte, Cultura e SpettacoloNews

Written by:

È di una straziante bellezza, MAGAZZINO 18, il monologo scritto da Simone Cristicchi con Jan Bernas (giornalista e autore del libro “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani”) che nell’interpretazione del cantautore romano, sulle tavole del Piccolo Teatro Strehler da ieri a domenica prossima, giunge alla conclusione di una lunga tournée iniziata il 22 ottobre del 2013 al Politeama Rossetti di Trieste. E proprio la città di Trieste, con il suo Porto Vecchio, tuttora sede di quel MAGAZZINO 18, emblematica metafora di storie di migranti che allora come oggi fuggivano da fame, odio e guerre, fa da sfondo all’avventura di un oscuro funzionario ministeriale, che da Roma si ritrova catapultato fra mobili, tavoli, sedie e arredi vari, lasciati in deposito o abbandonati, ognuno contrassegnato da un nome, da una sigla, da un numero e dalla scritta “Servizio Esodo”, con il compito di inventariarli e catalogarli, non senza una personale partecipazione emotiva, perché da quegli oggetti finirà per essere coinvolto e prosciugato, ponendosi anche degli interrogativi, uno in particolare: perché l’uomo contemporaneo non ha ancora imparato a vivere senza ammazzare? Accanto all’attenta regia di Antonio Calenda, alle luci sapienti di Nino Napoletano e all’efficace scenografia di Paolo Giovanazzi, le musiche delle cinque canzoni composte dallo stesso Cristicchi e di una di Sergio Endrigo sottolineano malinconia e nostalgia di chi ricorda e racconta le vicende dello sradicamento da terre sottratte all’Italia, con il Trattato di Pace firmato il 10 febbraio 1947, di circa 350mila persone, che dopo la tragedia delle foibe decisero di lasciare vasti territori dell’Istria e della fascia costiera, divenuti jugoslavi. In questo allestimento, per il quale è stata coniata la definizione di “musical civile”, il Coro dei Mitici Angioletti accompagna e coadiuva il protagonista nel canto e nell’interpretazione, perché tante furono anche le piccole vittime di carnefici fomentati da un odio insensato nei confronti di esuli istriani, giuliani e dalmati, colpevoli solo di essere italiani. E così, nelle mani del funzionario, ogni oggetto assume una fisionomia umana, una voce narrante, un sentimento, un ricordo, una speranza, un abbandono, un abbraccio, uno sguardo che ognuno spera non sia l’ultimo, perché un ritorno forse un domani sarà possibile. Vite spezzate da una morte violenta o deprivate improvvisamente di radici amate e catapultate drammaticamente in un futuro di paura e di insicurezza. La rabbia sale lentamente dallo stomaco e arriva in gola, ma non si traduce mai in urlo: è lieve e struggente e permea ogni angolo, ogni anfratto dell’anima e della Storia. Al fondo, come un’onda leggera e silenziosa, emerge dal mare di Trieste l’amore nonostante tutto, nonostante la morte, nonostante la voglia di vendetta o di giustizia. E una preghiera: non dimenticare…


Elisabetta Dente