“Lidia, apri, sono io”. La voce di papà, al citofono, è affannosa, quella di un uomo che sta scappando, che è scappato da qualcosa. Sale lentamente le scale, come per riprendere fiato dopo una corsa senza sosta. Sono circa le 18.00. Varca l’uscio di casa, che la mamma ha aperto contemporaneamente al portone d’ingresso del nostro stabile, il condominio di via Vitruvio, nei pressi della Stazione Centrale. Ha il viso stravolto, ci guarda con un‘espressione che io, nove anni appena, non avevo mai visto. Lo sguardo del terrore, di un pericolo scampato. Io e mamma lo fissiamo, eravamo in casa da soli, mio fratello e mia sorella sono fuori, ma rientreranno poco dopo, come se si fossero dati appuntamento con papà. La tv, in bianco e nero, a valvole, l’unico apparecchio della famiglia, in salotto, è accesa. Scorrono le prime immagini delle edizioni straordinarie dei telegiornali, testimonianze drammatiche, che corrono lungo tutto il tubo catodico. Papà si siede in poltrona, ancora inebetito, mentre la mamma gli porta un bicchiere d’acqua. Sorseggia prima veloce, poi un po’ più piano, come a non volerla bere tutta. Lentamente riprende un colorito naturale e comincia il suo racconto. “Avevo appuntamento alle 15.00 con Enrico Baracchini, il mio amico imprenditore, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana. Lui ha il conto corrente lì, doveva fare delle operazioni e io l’ho raggiunto perché aveva bisogno di una mia consulenza fiscale. Ci siamo visti, siamo entrati e poi ci siamo seduti al tavolo del salone centrale. Saremo rimasti dentro quasi un’ora a guardare le sue carte. Poi siamo usciti, ci siamo salutati e preso strade diverse. Io mi sono fermato in centro perché dovevo comprarmi un paio di camicie nel negozio di un altro amico e passare anche da Nicola Putignano, il maestro sarto di via Santa Tecla, al quale compilo il modello 740 della dichiarazione dei redditi. Sapete che mi paga in vestiti, e vuole a tutti i costi prendermi le misure di un cappotto di cachemire color cammello. Mi trovo in piazza Diaz quando un boato assordante, improvviso, squarcia l’aria intorno a me, mi fa girare la testa, perdere il controllo e finire per terra. Ad un tratto non capisco più nulla, mi appoggio sulle mani, provando a rialzarmi, mentre cerco con lo sguardo dov’è finito il mio cappello. Intanto, nell’aria si diffonde un fumo grigiastro, che porta con sé particelle solide, sembrano coriandoli e invece sono pezzetti di carta, intonaco, plastica, legno e ferro. E’ un atmosfera irreale. Vedo gente che corre urlando intorno a me in tutte le direzioni, nessuno sembra notare che sono seduto sul marciapiede, devo essere l’unico nel raggio di decine di metri. Cominciano a suonare più sirene contemporaneamente, sembrano impazzite. Riesco faticosamente a rialzarmi, mi sento ancora intontito. Avanzo barcollando verso via Larga, la percorro in direzione di piazza Fontana, da dove arrivano alte colonne di fumo, provo ad accelerare il passo, scartando le persone che corrono in direzione opposta, e quando sono un po’ più vicino vedo anche grandi lingue di fiamme, ne avverto quasi il calore. Quando finalmente giro l’angolo, la scena che si presenta ai miei occhi è quella di un’apocalisse”. I telegiornali, intanto, vomitano notizie e immagini in continuazione. Nei primi attimi, non ci si rende conto della reale natura dell’esplosione, tant’è che si pensa non allo scoppio di una bomba, ma a quello della caldaia della banca. Ma i segni evidenti della deflagrazione di un ordigno smentiscono quasi subito le prime voci circolate e mettono i milanesi davanti alla tragica realtà dei fatti. L’esplosivo è collocato in modo da provocare il massimo numero di vittime: sotto il tavolo al centro del salone riservato alla clientela, di fronte all’emiciclo degli sportelli. Proprio quello dove mio padre e il suo amico si erano seduti a parlare… Io, mamma e i miei fratelli non riusciamo a staccare lo sguardo da papà, che dopo una breve pausa di commozione riprende il suo racconto. “Per camminare devo scansare i detriti. La banca dov’ero stato fino a mezz’ora prima non c’era più. Dalle sue viscere usciva fumo nero, denso, molto diverso da quello che avevo respirato a un centinaio di metri di distanza. Dalle sue volute uscivano ed entravano vigili del fuoco, lettighieri, volontari, persone ferite, sporche e insanguinate. Qualcuno cercava inutilmente di calmare gli animi, di provare ad arginare l’onda lunga del panico, del terrore seminato da quella situazione infernale. Ho visto le ambulanze portare via i primi corpi bruciati e i feriti più gravi. E ho pensato a voi, ho capito di essere vivo per miracolo”. A quell’affermazione, papà scoppia in un pianto dirotto, che mi fa accapponare la pelle. Da quel momento in poi ho visto mio padre piangere altre volte e per motivi differenti, ma la sensazione è stata sempre la stessa, un misto di struggente tenerezza e di inquietudine. Per tutti quelli che a vario titolo l’hanno vissuta, la strage di piazza Fontana, quel venerdì 12 dicembre del 1969 alle 16.37, che provocò 17 morti e 88 feriti, è stato l’episodio che ha dato inizio alla cosiddetta “strategia della tensione”. Ma per mio padre, passatemi per favore la battuta, che può apparire cinica e fuori luogo, ha rappresentato, invece, la “strategia della pensione”. Nel senso che a cinquant’anni suonati, scampando miracolosamente alla morte, lo ha rimesso al mondo una seconda volta. Consentendogli, 15 anni più tardi, di raggiungere il meritato riposo (e non l’eterno riposo), dopo 44 anni di onorato servizio nello Stato…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)