La nostalgia è un vento amico, così mi disse uno che la vita l’aveva vissuta a pieno. C’è chi contempla tempo ed eventi guardando foto ritrovate, chi fissa il vetro di un bicchiere per poi ingurgitarne il contenuto, zittendo testa e cuore. Poi, ci sono gli altri, quelli che: “Il tempo va vissuto guardando al futuro” e intanto ignorano il presente. Non è facile distinguere fra sentimento di nostalgia e desiderio di rapporti sociali che hanno subito trasformazioni, non nel senso di un avvicinamento fra le persone ma nella edificazione di barriere e steccati sempre più alti. A volte il mio sguardo si sofferma ad osservare un quadro acquistato da una pittrice dei navigli raffigurante una tipica ringhiera delle vecchie case milanesi. È un salto indietro al secolo scorso quando in terra di Lombardia muovevo i miei primi passi. C’era di tutto su quella ringhiera, soprattutto c’era vita, le porte dai colori mai uguali aperte, panni stesi, gatti a spasso liberamente. Tante storie una accanto all’altra, la rappresentazione di una quotidianità individuale e collettiva. Il ballatoio di ferro battuto era raggiungibile con le scale su un lato, era la sola via d’accesso alle abitazioni e per raggiungere la porta d’ingresso della propria casa bisognava passare davanti a porte e finestre spesso aperte. Mi è captato di ascoltare giovani alternativi e figli d’arte che hanno acquistato ristrutturate case di ringhiera nei luoghi della movida milanese, ascoltandoli ho avuto la stessa sensazione di chi essendo stato in Africa assista a uno spettacolo di danze tribali allestite per danarosi turisti, la casa di ringhiera era altro. Io vi ho vissuto, è stato il mio primo acquisto milanese, con i miei amici di allora mi vantavo fosse il mio pied-à-terre, in realtà è stata la mia abitazione per circa tre anni. Monolocale con un minuscolo cucinino e un bagnetto con soppalco posto al quarto piano senza ascensore. Gli amici mi prendevano in giro dicendomi che le mie “conquiste” erano più che altro cedimenti, in quanto dopo quattro piani che ne sembravano sei le “prede” capitolavano per stanchezza. Quella che fu la mia prima casa di proprietà esiste ancora, ma è scomparsa la realtà sociale di cui era esempio. «C’era una volta, alla periferia nord di Milano, una via sterrata lambita da campi. Al numero sedici, una comunità viveva in un palazzone chiamato il Cairo». Quando ci ho abitato io non era neanche più quella descritta nel romanzo Il Cairo – Una storia milanese di Adriano Pasquali (ExCogitaEditore) quella via che si chiama della Torre, non era più sterrata né lambita dai campi. E al numero 16, quel palazzone di quattro piani di ringhiera, costruito tra il 1885 e 1887, con acqua e gabinetti esterni e un lavatoio in cortile, non è più la corte popolare dove vivevano ammassate le famiglie proletarie degli operai delle industrie sorte nelle vicinanze (la Falck, la Breda, l’Ercole Marelli, la Pirelli). Il Cairo esiste ancora, ci sono tornato in “pellegrinaggio” a cercare la gente i miei vicini di allora, sperando di trovare quello che è sopravvissuto al tempo. Il contesto sociale è totalmente cambiato altre miserie altre speranze popolano quelle abitazioni di massimo due stanze. Quando vi arrivai sul mio piano creammo un trio incredibile a causa dei nostri cognomi: io Selvaggi, nella abitazione accanto la Sig.ra Salvaggio e a seguire la Sig.ra Furiosi … un gruppo temibile almeno per i cognomi. Queste due “antiche” donne, una originaria del Gargano e l’altra friulana, mi adottarono subito insegnandomi a far da mangiare offrendosi di tenermi in ordine casa; oltre a noi, sullo stesso piano viveva un imbratta tele con velleità artistiche, un mezzo mago non tanto giusto di testa, e altri soggetti unici degni di un romanzo d’ambientazione. La casa di ringhiera era condivisione, la vicinanza delle case e l’esistenza di uno “spazio comune” (il ballatoio) creava occasioni di incontro con i propri vicini. La ringhiera è stata un’esperienza profondamente sensoriale. Ricordo la prima volta che sono entrato in casa mia, era domenica mattina e si sentiva forte l’odore del caffè provenire dalle abitazioni vicine. Tra odori e rumori, i sensi erano fortemente stimolati, anche questi, erano strumenti per conoscersi, avere un’idea di chi ci stava accanto, condividere, anche, i propri spazi, abitudini, comportamenti. Quando arrivò il caldo si viveva con la porta aperta, almeno per qualche ora del giorno e della sera e questo causava in me due fasi diverse di reazione. La prima era di forte imbarazzo in quanto non riuscivo, attraversando il ballatoio, a non guardare dentro le case altrui (e questo mi faceva sentire invadente). Nella seconda fase invece, passavo e da dentro mi chiamavano per nome, invitandomi ad entrare. Avevo 27 anni, una casa piena zeppa di libri, una laurea appesa al muro (non per vanità, ma per evitare di perderla tra le tante altre carte) che mi comportò non pochi fastidi in quanto essendosi sparsa la voce che ero “avvocato” ogni tanto mi ponevano quesiti e chiedevano a me che ero il più giovane abitante di risolvere controversie famigliari e altri piccoli guai; andavo per la maggiore “ero gratis”. Avevo imparato a convivere con questo modo di vivere la casa, aperto, accogliente e non fanaticamente attaccato alla propria privacy. Quante serate mettevo la sedia fuori dalla porta e mi perdevo a guardare il giorno che si spegneva tra i tetti, dalla casa di ringhiera è qualche cosa che, qualcuno direbbe:” toglie il fiato”. In verità la sensazione è che permetteva di respirare allargando il proprio orizzonte. La casa non era più solo dalla porta in poi, la casa si estendeva all’esterno in un pezzo che è di tutti. Al di là delle nostalgie per un mondo scomparso, quello che mi è rimasto dentro era il modo naturale che alcuni miei vicini avevano di affrontare la miseria senza sentirla tale in quanto convinti di essere stati protagonisti con le proprie speranze del processo di crescita del paese e di ricostruzione dopo l’ultima guerra. La realtà oggi mi appare affannata, affannosa e disarticolata. Quando ascolto voci che sento sempre più estranee percepisco che oggi non si spera più, si arraffa e si corre senza un vero perché. Quello di allora era un mondo pieno di voci, oggi invece percepisco solo rumore. Tante di quelle microstorie degli abitanti di quella corte della ex periferia milanese mi hanno accompagnato nella mia crescita umana e professionale, ho imparato che la gente va apprezzata senza fermarsi alle apparenti apparenze e che c’è più nobiltà in chi divide il niente con chi ancora vive accumulando per il niente. Il modo di vivere della casa ringhiera di Milano era lo stesso delle case a pianterreno del mio Meridione. Gente che nel periodo estivo specialmente condivideva gli stessi spazi esterni dove, ci si sedeva e si chiacchierava, era lo stare sui social di quei tempi. Quando poi è arrivata la televisione, bastava alzare la tenda e godersi lo spettacolo dalla strada condividendo quella “magia moderna” con i vicini che ne erano sprovvisti. Oggi palazzoni che poco spazio danno alla socializzazione hanno preso il posto di quelle case a pianterreno e degli spazi dove giocavamo da bambini in piena libertà…
Giuseppe Selvaggi (poeta e scrittore pugliese)