Stasera al Franco Parenti MONOLOGO IN BRICIOLE. Vittorio Franceschi in un viaggio poetico attraverso l’opera smisurata, magmatica e visionaria di Cesare Zavattini

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Nel 1955 la casa editrice Einaudi ci fece conoscere il primo fotolibro a comparire sul mercato italiano – Un paese, con foto di Paul Strand e testo di Cesare Zavattini – e puntuale vent’anni dopo, nel 1976, Giulio Einaudi Editore diede alle stampe il secondo volume con 134 foto in B/N nato stavolta dalla collaborazione fra lo scrittore e un altro grande maestro dell’obbiettivo, Gianni Berengo Gardin, dal titolo Un paese vent’anni dopo. Unico volume della collana Italia mia progettata dallo stesso Zavattini, che prevedeva un secondo testo dedicato alla Napoli di Vittorio De Sica, un terzo alla Milano di Luchino Visconti e un quarto alla Roma di Roberto Rossellini, Un paese racconta in 88 foto in B/N Luzzara, il piccolo paese della Bassa reggiana – un tipico paese della provincia italiana – che diede i natali a Cesare Zavattini il 20 settembre 1902. Si tratta dell’incontro fra il grande documentarista e fotografo americano e il poliedricon ed eclettico autore, già noto come sceneggiatore del Neorealismo italiano, che in una perfetta sintesi fra cinema e letteratura raccontano insieme attraverso immagini e descrizioni la vita semplice dei suoi abitanti, ripresi nelle loro attività quotidiane di contadini e del loro rapporto con la terra. Mentre Berengo Gardin si discosta dal lirismo dell’aspetto agricolo-contadino per porre l’accento sulle trasformazioni sociali intervenute nel tempo ad esempio nell’urbanistica e nel mondo operaio. A dare voce ai personaggi nati dall’osservazione critica ma anche dallo sguardo visionario di Zavattini è il bolognese Vittorio Franceschi, uno dei maggiori interpreti del Teatro italiano, questa sera al Teatro Franco Parenti – nell’ambito della Rassegna La grande età – nell’unica replica di Monologo in briciole, di cui cura drammaturgia e regia. Non è possibile inchiavardare in un’unica definizione né la costruzione di questo testo, ideato da Vittorio Franceschi nel 1984, né tanto meno la complessità della produzione di Zavattini, uno dei maggiori protagonisti della cultura e dell’arte del nostro Paese, e Franceschi lo fa appunto distillando e cesellando briciole da quel caleidoscopio umano che è stata l’opera di Za espressa in poesia o pittura o prosa ma anche nella sua intensa attività di giornalista e regista. E così prendono corpo davanti ai nostri occhi le suggestioni di ricordi di un tempo antico, le prime corse nei campi da bambino e la giovinezza funestata dalla Seconda guerra mondiale, la miseria e la fatica di rialzarsi da una condizione inaccettabile. Ma allo stesso tempo una leggerezza, una tenerezza sottile nell’affacciarsi nonostante tutto alla vita con speranza e allegria. E il grande amore dal profondo radicamento nelle proprie radici che traspare dal languore nell’osservare i paesaggi lungo il Po, lo stormire delle foglie dei pioppi, la nebbia impalpabile dell’inverno così come la bianca sabbia sulle sue rive d’estate. Ci sono i pensieri, le riflessioni, le rime, appunti di diari e descrizioni a tratti ironiche a tratti profonde che creano un universo colorato e armonioso. Non solo la sua natia Luzzara, nella quale farà sempre ritorno e dove ha sede il Museo nazionale delle arti naives da lui ideato, ma anche i resoconti dei suoi viaggi all’estero, le sue esperienze come la stesura di soggetti per fumetti o l’avventura radiofonica con la parolaccia da lui pronunciata per primo alla Radio il 25 ottobre 1976 nel programma Voi e io punto e a capo diretto da Beppe Grillo e il progetto di un programma televisivo dal titolo Televeritàaaaa. Infine, nella sterminata attività di Zavattini, rivestì un ruolo di primo piano il suo impegno nel sociale per il quale venne insignito del Premio mondiale per la Pace nel 1955. Passione, professionalità, amore per un grande del nostro Paese da un grande applauditissimo protagonista della nostra scena.

Elisabetta Dente