Il tema è delicato e complesso, ma lui lo affronta con durezza e anche con un po’ di humor nero, che lascia intendere quanto possano essere cinici i giornalisti quando affrontano la realtà delle cose e dei fatti, pur vestendo, come in questo caso, i panni degli scrittori. In realtà, molto spesso il cinismo è l’ultima spiaggia dei romantici e Gian Luca Campagna, cinquantaquattrenne giornalista e comunicatore d’azienda di Latina, scrittore prolifico e romanziere ormai esperto, il romanticismo non lo disdegna affatto e lo spruzza qua e là nelle vite dei suoi personaggi. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono Gianni Colavita, trentanovenne giornalista, ambizioso, cinico e donnaiolo (appunto) e Carla Medici, cinquantottenne ex insegnante di Filosofia, malinconica e depressa, protagonisti entrambi del suo nuovo libro, IN VIAGGIO CON LA MORTE (della collana Giungla Gialla di Mursia Editore, diretta da un altro giornalista e scrittore d’eccezione, Fabrizio Carcano), presentato ieri alla Libreria Bocca di Galleria Vittorio Emanuele. Il romanzo è inizialmente ambientato a Roma, ai giorni nostri; Carla, vedova e malata terminale, contatta Gianni, che dieci anni prima ha seguito l’omicidio, del figlio, rimasto irrisolto. La richiesta è insolita quanto la convocazione: la donna, infatti, chiede al giornalista di essere accompagnata nel suo ultimo viaggio verso una clinica svizzera, dove ha scelto di morire. Determinato a risolvere il vecchio delitto e nonostante sia tormentato dai dubbi, l’uomo decide di assecondarne la volontà, ma a patto che il viaggio si trasformi in un’avventura per esaudire gli ultimi cinque desideri dell’aspirante suicida. Così, a bordo di una spider, la strana coppia inizia a collezionare luoghi come frammenti di un puzzle, che li riporterà ai fatti di dieci anni prima. “Un nuovo romanzo nasce sempre dall’idea che ho impressa nella mente su cosa debba essere la narrativa”, esordisce Campagna. Credo che debba esserci una forma d’equilibrio sana, tra evasione e impegno sociale. L’evasione la intendo come un intrattenimento rispettoso nei confronti di un lettore, sempre più distratto per essere coinvolto e bombardato da informazioni tramite i cellulari, stressato da un reale da cui vorrebbe talvolta fuggire per trovare l’illusione di un altrove in cui rifugiarsi e sognare, provando i sentimenti dei protagonisti delle storie. La narrativa, però, deve guardare con spirito critico la società, facendo emergere conflitti, storture e contrasti, non perché debba fornire soluzioni, ma mettendo a disposizione del lettore diverse opzioni, fornendogli strumenti adeguati per crearsi una sua opinione. Questo atteggiamento critico è stato sempre alla base della mia formazione di scrittore, grazie alle letture noir e al lavoro di giornalista. E poi aggiungerei la “divina curiositas”, che è quella che mi anima, che mi spinge a scrivere, a superare le omologate Colonne d’Ercole: così ecco che trovo divisivo, duro, difficile, affrontare un argomento come quello del suicidio assistito. E allora ci scrivo su una storia, anche perché sarà un tema che come decadente società Occidentale saremo costretti ad affrontare una volta per tutte, comprendendo finalmente che la morte non è altro che l’elemento finale della vita, accettandone la sua essenza all’interno di un Giano Bifronte, dove i contrari non si combattono, ma si fondono. Comunque, questo romanzo (come credo tutti gli altri che ho scritto) nasce dal dolore delle persone, dalla voglia di anestetizzarlo, di alleviare lo “spleen” di cui sono intrisi i miei personaggi, sfamando anche, lo ammetto, il mio personale senso dell’inquietudine”.
La scelta dei luoghi lungo i quali si srotola la trama (Svizzera a parte, per ovvie ragioni) ha un significato particolare, o è da ascrivere più semplicemente alla regione in cui vivi e lavori e da cui parti spesso per raccontare?
“Questo è un romanzo “on the road”, parte dai cinque desideri che Gianni invita Carla ad esprimere e da lì, poi, a cercare di esaudirli. È il gioco dei simili e dei contrari, della vita e della morte, del desiderio e della sua assenza. Alla fine, nelle tappe elencate da Carla, ci sono desideri umani, quotidiani, reali, non sono obiettivi irraggiungibili, perché appartengono a quella sfera di cose messe da parte e rimandate di ognuno di noi. Quindi, dire addio alle persone che hanno rappresentato un significato per la nostra vita, che ci hanno accompagnato per un periodo più o meno lungo, alla fine è uno strumento che dovrebbe essere ad uso di tutti. Carla dice: “Nessuno di noi sceglie quando e dove nascere, ma è bellissimo scegliere quando morire. E a chiunque dovrebbe essere permesso di prepararsi al commiato della vita come se fosse un giorno di festa”. Se ci pensi, il viaggio, la tavola, il buon bere, finanche il sesso, i tramonti, la danza e la ricerca ossessiva di una certa verità, che costellano gli ultimi momenti di vita di Carla, sono desideri “banali”, diciamo così. Poi, facendo riferimento al doppio percorso narrativo (che per esigenze di copione, quindi d’indagine, è ambientato a Roma), ho preferito descrivere una città ai margini, con i personaggi alla periferia della vita, con luoghi più pasoliniani che da cartolina”.
Pedro Almodòvar dice che “se in un film, in un racconto o in un romanzo non c’è nulla di autobiografico, vuol dire che è un plagio”. Quanto c’è di te, dunque, nei tuoi personaggi?
“Il regista spagnolo ha ragione da vendere. Io diffido di quegli scrittori che dicono che nei loro romanzi non c’è nulla di autobiografico, che è frutto solo della loro fervida immaginazione, del sacro furore della creatività che li pervade, che sono solo grandi osservatori della realtà che li circonda. Dicono cazzate, ovviamente, perdona il francesismo. Sarebbe impossibile entrare in empatia con il lettore, generando quel magnifico ponte spirituale che si crea con loro tramite le pagine, se non c’è l’esplosione dal loro inconscio, dalle loro madeleine e dal loro demone socratico, ecco che escono parti in nome dell’esercizio di stile. I miei personaggi li studio, hanno non solo un carattere o un “outfit”, ma anche un’infanzia, dei rimorsi e dei rimpianti. Amo descrivere i miei personaggi fatti di carne, sangue e passione, non piuttosto di carta e inchiostro. Anche la barista che arma il braccio della macchina del caffè ha una sua storia e sentimenti propri, pur comparendo solo in tre righe, mentre ascolta i discorsi dei due protagonisti. È la democratizzazione dei personaggi, protagonisti, comprimari e comparse: ognuno ha la sua dignità. Così io rifletto alcuni aspetti di Gianni, ma anche di Carla. E ovviamente della barista, con i suoi sogni e le sue delusioni”.
Parliamo un po’ di Milano, adesso. Tu vieni spesso nella nostra città: com’è cambiata e come sta cambiando, secondo te?
“Milano l’ho vissuta a venticinque anni, durante il Servizio Militare, bersagliere alla Mameli, il cosiddetto “Inferno Rosso”, quando la caserma sfornava militari per le operazioni in Somalia e in Albania. Solo che per il mio percorso di studi e già giornalista, fui dirottato in fureria e poi in biblioteca, venendo a contatto con un’umanità lombarda che è stata veramente maestra di vita. Con l’anima di oggi, fu una grande occasione persa. Milano era già bella, ora è addirittura bellissima, una città europea a tutti gli effetti, proiettata verso un futuro che gli appartiene. Quando mi chiedono un paragone con Roma scuoto la testa, ma non perché dovremmo essere lì a contrapporre un derby d’Italia quanto piuttosto che, vivaddio, sono due città differenti. È come se mi ponessero la domanda che differenza c’è tra Torino e Buenos Aires: Torino è Torino, pur cambiando, BA è BA, con le sue trasformazioni. Le città sono un fantastico agglomerato di anime differenti. Io amo girarle a piedi, le respiro, entro nei bar, nei mercati, nei quartieri malfamati… Scusami, sto divagando. CityLife la trovo pertinente ai tempi che viviamo, al pari del Mercato Centrale, poi se mi immergo in Brera o lungo i Navigli respiro la Milano che ho conosciuto, ma ho amato (e amo) anche Gratosoglio. Troppo facile è amare, nel senso di entrare in empatia, il Castello Sforzesco o San Siro”.
Tu sei un uomo di comunicazione e Milano è innegabilmente la capitale italiana della Comunicazione. Qual è, a tuo avviso, la situazione attuale, riguardo al giornalismo e all’editoria milanesi?
“Milano è la capitale di tante cose. E quando si è capitali di tante cose, come della Finanza, ad esempio, si è inevitabilmente capitale dell’Informazione e della Comunicazione. Oggi questo settore è dominato dai social network e forse non è un caso che la donna che ha sperimentato gioie e dolori di questa straordinaria frontiera viva a Milano. Ovviamente, mi riferisco a Chiara Ferragni. Corsera, Gazzetta, IlSole, gli studi Mediaset e Sky, Radio24 restano testate e gruppi ancorati alla realtà milanese, anche se oggi parlare di confini e appartenenza, nel mondo web, è riduttivo e antico. Andando avanti nel tempo, in questa sorta di Guernica quotidiana, ci accorgeremo che sarà il social a dettare tempi e ritmi. E con una piccola camera non conterà più essere ad Asti o a Lima. Sperando che il re sia ancora il contenuto”.
Un’ultima domanda, Gian Luca, prima di chiudere la nostra chiacchierata. Secondo te, Milano è ancora, dopo quella di Scerbanenco, una città dove ambientare un romanzo noir?
“Il giallo e il noir italiani hanno scoperto da anni la provincia, il campanile, caratterizzando e dando nuovo impulso e vitalità al genere con i vizi privati e le pubbliche virtù di ogni microcosmo. Io, dal canto mio, essendo un gitano per estrazione, ambiento i romanzi sempre “on the road”, abbracciando le metropoli, le province, le periferie e gli orizzonti sconfinati. Ma prima o poi dovrò genuflettermi anche a quell’inquietudine che Scerbanenco ha espresso nei suoi romanzi, ambientando almeno una parte di un mio scritto a Milano”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)