Quel freddissimo 2 gennaio 2003 me lo ricordo bene. Era domenica. Nevicava, e a quell’ora del mattino, intorno alle 11.00, Milano sonnecchiava ancora. Le poche macchine che circolavano non facevano un gran rumore perché lo strato di coltre bianca attutiva l’attrito delle gomme sulla strada e rendeva il loro passaggio ovattato. Le autorità comunali avevano deciso, previa autorizzazione della famiglia, di tumularne la salma nel Famedio del Cimitero Monumentale, destinato ai personaggi che hanno dato lustro alla città. Prima di andare a trovare mia madre alla casa di riposo mi accodai anch’io al piccolo corteo di gente comune che aveva deciso di assistere alla cerimonia funebre e rendergli ancora omaggio, come aveva fatto altre volte a teatro. Il rapporto fra Giorgio Gaber e la sua Milano è sempre stato molto forte, intenso. Quell’uomo libero, di pensiero anarchico, che rifiutava ogni tipo di etichetta, da quelle politiche alle firme della moda (le uniche che fu costretto in qualche modo ad accettare furono quelle discografiche) piaceva molto ai milanesi, che per lui provavano affetto, stima e rispetto, chiamandolo amorevolmente “Signor G”. Era nato in via Londonio, nei pressi della sede Rai di Corso Sempione, da una famiglia piccolo borghese. Anche i suoi genitori, il padre Guido Gaberscik, impiegato, istriano, e la madre Carla Mazzoran, casalinga, veneta, erano iscritti nelle liste degli emigranti venuti a Milano da tutta Italia in cerca di un futuro migliore. Lo stato di salute di Giorgio è cagionevole; durante l’infanzia si ammala più volte. Poi, un brutto infortunio al braccio sinistro, che gli procura una lieve paralisi alla mano, tra gli otto e i nove anni, gli impone un’attività fisica costante per la rieducazione motoria. E considerato che il fratello maggiore Marcello suonava la chitarra, anche lui imparerà a suonarla. L’idea dà buoni risultati, sia sotto il profilo medico che artistico. Da adulto, dirà: “Tutta la mia carriera è nata da quella malattia”. Non era un personaggio facile, Gaber. Non lo sono tutti gli uomini e le donne di forte personalità. Non era facile guardarlo, non era facile ascoltarlo, non era facile capirlo. E non perché si muovesse e parlasse ricorrendo a linguaggi inaccessibili, anzi. Piuttosto perché confrontarsi con lui, con il suo lavoro, imponeva di togliersi le maschere e di essere semplicemente persone, oneste intellettualmente. E di conseguenza non era facile accettarlo, come non è facile mettersi davanti a uno specchio che mette in mostra tutti i nostri vizi, le nostre ipocrisie, che ci sbugiarda e ci costringe a guardarci dentro. E anche oggi, molti anni dopo la sua scomparsa, non è nemmeno facile parlarne, raccontarlo. Forse neanche lui lo avrebbe voluto. Forse andrebbe solamente ospitato, accolto dentro di noi, e riflettere amichevolmente insieme a lui. Forse perché non esiste un solo Gaber, vista la sua lunga carriera di cantautore, commediografo, regista e attore di cinema e teatro. Un Gaber buono per ognuno di noi…Senza Milano non è possibile, in alcun modo, immaginare Gaber; erano praticamente una cosa sola, mischiati e fusi insieme al punto tale che i contorni umani e cittadini risultavano così sfumati da confondersi totalmente e inestricabilmente. Milano era la sua vita, Milano lo faceva sentire al centro di un universo affettivo di enormi proporzioni. E lui, qui, al sicuro, faceva i suoi compiti come un bambino sul tavolo della cucina, mentre la mamma prepara la cena. Si interrogava e interrogava tutti noi sul senso dell’esistenza umana, sulla necessità di una profonda ricerca interiore, in mezzo alla cose più normali del nostro vivere quotidiano. Milano era il suo piccolo mondo antico e la sua metropoli vicina all’Europa, uno snodo, un “hub”, come dicono quelli che parlano bene, tra la povertà del Sud e la ricchezza del Nord, fra i contadini meridionali che lasciavano le loro campagne sempre più improduttive e venivano qui a fare gli operai e gli industriali milanesi, che quasi sempre si arricchivano alle loro spalle e grazie alle loro spalle, forti e generose. Milano lo incantava e lo illudeva, neanche poi tanto, forse, e lo spaventava, con i suoi “anni di piombo”, perché non era in quel modo sanguinario che bisognava fare la rivoluzione. La sua Milano ben piantata per terra, con le sue immarcescibili tradizioni, e con la testa sempre pronta ad anticipare il futuro. La sua Milano “città che più città non si può”, dove ci stava da Dio, irriducibile animale metropolitano. La Milano della sua via Londonio, dove tornava, alla trattoria “Da Silvano”, insieme a Enzo Jannacci, Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto e Beppe Viola, ad abbuffarsi, a bere l’impossibile e a sparare puttanate a raffica, dalle quali uscivano, immancabilmente, intuizioni geniali. La Milano nella quale aveva trovato non solo la sua dimensione umana, ma anche quella artistica. La Milano della televisione, della Rai, e quella del teatro, del Piccolo e del Lirico, sempre stracolmi di gente e di umanità, quando recitava lui. La Milano del suo grande amico Sandro Luporini, insieme al quale ci ha regalato pagine indimenticabili di teatro-canzone, una loro azzeccatissima invenzione. La Milano dove aveva trovato l’amore della sua vita, Ombretta Colli, condotta all’altare all’Abbazia di Chiaravalle nel 1965, nello stesso luogo incantato nel quale una folla immensa lo ha salutato, commossa, per l’ultima volta. Grazie di tutto, “Signor G”…
(Brano tratto da “Milano Meravigliosa”, di Ermanno Accardi – Edizioni della Sera, 2013 )