Suona la tromba intrepido, il pistone non sale, non scende, non ubbidisce. Quei due anni di conservatorio, però, sono bastati a Maurizio Donadoni per affrontare con professionalità le note delle canzoni che costituiscono la colonna sonora dello spettacolo, la narrazione, a cavallo tra due secoli, lungo un percorso quarantennale, della breve vita di Giacomo Matteotti. Da “Por una cabeza” a “Non ti scordar di me” (la prima e l’ultima delle canzoni evocate con voce sicura) le immagini scorrono davanti ai nostri occhi, ora proiettate sullo schermo di una grande lavagna e ora evocate grazie all’efficace scenografia di Edoardo Sanchi, composta da giornali dell’epoca, vecchi libri e complementi d’arredo art déco, in mezzo ai quali la figura di Giacomo Matteotti, giustamente ricordato qui nel centenario della morte, emerge nella sua totale nudità, ovvero in tutta la forza del suo fervore politico, la sua determinazione nel perseguire un obiettivo e la capacità di trasformare in realtà un sogno coltivato fin da bambino. Non nuovo nel dare vita e voce a personaggi o a vicende storiche (ricordiamo “Memoria di classe. Storie del Vajont”, vincitore del Premio Iside al Festival di Benevento nel 1994 e l’anno seguente del premio Enrico Maria Salerno, per una drammaturgia di impegno civile, o ancora l’appassionata ricostruzione della resistenza della “Rosa Bianca” dei Fratelli Scholl nel 2001 ), con la sua possente fisicità Maurizio Donadoni, che del testo è autore e interprete, compone e scompone in vari vernacoli, oltreché in italiano, i momenti salienti della vita del deputato socialista, che fedele al suo credo morì gridando “Viva il socialismo”. In una Roma che è sempre eterna, Matteotti pronuncia il suo ultimo discorso (di cui ascoltiamo uno stralcio) il 30 maggio 1924 senza mai tirarsi indietro, anzi, esponendosi più che mai nel denunciare scandali, la richiesta di tangenti, il coinvolgimento del Re. I sicari, intanto, tramano nell’ombra e mai si saprà se il mandante dell’assassinio fu o no il Duce. Il documentario teatrale intreccia perfettamente istanti di tenerezza coniugale fra il Giachi e la Chini (Giacomo e la moglie Velia) e la vita oltre le finestre, laggiù nella strada, dove gli anonimi passanti vivono un’esistenza in bilico tra ribellione e consenso. Un uomo multiforme e allo stesso tempo integro, ricco borghese sì, ma attento sempre alle condizioni dei più umili, in primis a favore dei contadini della sua terra, essendo nato a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo. Non dimentichiamo che dobbiamo anche alla sua figura, al suo sacrificio, se oggi viviamo liberi in un Paese democratico. Ma cosa direbbe, oggi, quel bambino di otto anni, che mentre si abbassano le luci gioca immaginando un futuro da grande? La risposta potranno darcela i dieci giovani attori interpreti di un prossimo allestimento di questo testo: dieci sedie poste a semicerchio, sullo sfondo di un bianco lenzuolo. Nel frattempo, la messinscena a firma di Paolo Bignamini attende gli spettatori al Teatro Oscar, fino al 24 marzo…
Elisabetta Dente