Un libro e uno spettacolo, un monologo e un testo teatrale. IO, VINCENT VAN GOGH, è in scena al Teatro Leonardo fino a domenica prossima, 24 marzo, prodotto da Manifatture Teatrali Milanesi. L’equazione non è poi così scontata, per un testo che nel gennaio scorso ha vinto la XVII edizione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia Tragos per la Sezione Autore Contemporaneo. E allora come accostarsi a questo gigante della pittura? E soprattutto: perché proprio a lui? Alla domanda risponde direttamente Corrado d’Elia, autore del progetto, nonché interprete e regista dello spettacolo, alla presentazione del libro, che reca lo stesso titolo, edito da Skira Arte. “L’idea nasce da un processo identificativo”, esordisce d’Elia. Mio padre era pittore e quando io rientravo a casa, alla sera, sentivo subito l’odore dei colori, dell’acquaragia”. Ma questo è solo l’inizio di un iter che porterà il regista milanese ad andarsene da casa per affrontare l’avventura di un viaggio in camion che lo porterà nelle Marche, dove sperimenterà in prima persona l’emozione dei colori di Van Gogh, l’azzurro, il verde, che ci vengono restituiti dai materiali di cui si compone il fondale, e soprattutto il giallo, che nello spettacolo è reso superbamente dalla stupenda scenografia di Chiara Salvucci, quintali di paglia tagliati col filo caldo, che restituiscono perfettamente l’atmosfera e l’odore del grano. “Nel testo, che chiamo Album, io sento di appartenere a Van Gogh, così come Van Gogh appartiene a me”, rivela ancora d’Elia. “E’ un percorso ricco di squarci lirici, sono stasimi meditativi, in cui il coltello entra nell’anima”. Qual è il senso della rima? “E’ il mio flusso emotivo”, afferma. E di emozioni è veramente palpitante questa ballata, sessanta minuti di intensa, perfetta fusione fra immagine evocata (non vediamo quadri proiettati sullo sfondo) e parola, durante i quali si sfiora appena il tema della follia in Van Gogh, che forse vera follia non era, quanto piuttosto il dilemma che ha squarciato la sua mente e che lo ha attanagliato per tutta la vita, cercando sempre di rifuggire da una sterile normalità, ovvero la scelta, mai compiuta, fra arte e vita. Ecco, dunque, che i momenti salienti sfilano davanti ai nostri occhi: gli anni di Parigi, il rapporto epistolare con il fatello Theo, la vita ad Arles, l’amicizia con Gauguin, il manicomio, in un flusso emozionale ora delicato, ora violento, ininterrotto. Da leggere e vedere.
Elisabetta Dente