Hugo stava in piedi, dritto, con la testa rivolta verso l’alto, a guardare il tabellone con gli orari dei treni, alla stazione di Porta Garibaldi, già visto e rivisto moltissime volte. Ma che cosa li guardava a fare? Aveva preso quasi tutte le sere, per un anno di seguito, l’ultimo treno per Varese, dopo aver cercato lavoro a Milano, per andare a bussare alle porte dei suoi tanti amici sudamericani che vivono qui, e sapeva bene a che ora doveva prenderlo, a che ora sarebbe partito quel treno per tornare a casa dal suo amico Francisco, che lo aveva ospitato per qualche tempo. Adesso, Hugo non ha per fortuna più bisogno di ospitalità. A Milano è riuscito a prendere faticosamente la licenza di tassista, a trovare una casa. Ma il ricordo di quei tempi difficili, trascorsi a Varese, dopo i guai che aveva passato con la giustizia, in Argentina, lo rapiva in continuazione, e non lo abbandonava mai. Hugo Fernandez Oliva è nato 44 anni fa a Buenos Aires da una famiglia benestante, proprietari terrieri e produttori di carne, la gustosa e costosissima carne argentina. Una bella vita, la sua, tra belle donne, soldi, macchine di lusso, viaggi, in giro per il mondo. Poi, all’improvviso, quella strana vicenda giudiziaria, che lo aveva costretto ad andarsene, a scappare via dalla sua terra per evitare di finire in galera. L’arrivo in Italia, il Paese più vicino al suo, dal punto di vista di usi e costumi, della lingua, del carattere della gente. Anche se Varese, dove abitano alcuni suoi amici, non era proprio il luogo più accogliente, dal punto di vista del calore familiare e amicale. Però era l’unica opportunità che la vita gli aveva offerto per rifarsi la sua, di vita. Da Varese a Milano i chilometri non sono poi così tanti, e così la grande metropoli lombarda lo ha accolto come un figlio, come ha fatto con altri figli adottivi, e non solo argentini. Ora Hugo è diventato “Hugo 21”, il radiotaxi più richiesto soprattutto dalle signore della Milano bene, per i suoi modi gentili, da galantuomo affascinante quale è sempre stato. Si era messo a passeggiare nel piazzale della stazione, ma c’era una nebbia fitta, quella sera, la vigilia di Natale, e non si vedeva a un passo, quella nebbia, come si dice, che si può tagliare con il coltello, che non gli permetteva di non perdere di vista la sua vettura pubblica, che aveva lasciato incustodita. Aveva la sensazione di muoversi nel nulla, quasi come un’astronauta, in assenza di gravità. Alla nebbia milanese, Hugo, non si era mai abituato, da vero uomo solare del Sud America, e tutte le volte gli dava quella strana sensazione, quella di essere rimasto l’unico uomo vivente sulla Terra, l’unico sopravvissuto a una catastrofe nucleare, tanto che incrociando altre persone, o vedendo i fari delle auto che passavano lentamente spesso trasaliva, quasi impaurito. Attraverso quel muro senza mattoni, quel manto grigio e ovattato che lo avvolgeva tutto, Hugo aveva avuto la sensazione di vedere una donna, una giovane donna, avanzare verso di lui. Aveva l’incedere e le movenze di una pantera, e teneva stretti fra le mani due bambini, un maschietto e una femminuccia, che affrettavano i loro piccoli passi per tenere quello più veloce della loro mamma, così austera, così sicura di sé, nonostante l’ora tarda e le mille insidie della notte milanese, come uno strano e atipico animale metropolitano, che non ha paura, o finge di non averne, chissà, dei pericoli rappresentati dai cacciatori suburbani che si potrebbero materializzare di fronte improvvisamente, forse per infondere coraggio alle sue timorose e indifese creature. Ad un tratto, la sensazione di Hugo si era trasformata in realtà. Quello splendido esemplare di femmina, con una lunga coda bionda di cavallo, si era materializzata a pochi passi da lui. Si era fermata di colpo, tenendo ben strette le manine dei suoi piccoli, come se stesse impugnando due pistole prima di un duello all’ultimo sangue. Aveva un cappotto lungo nero, slacciato, che faceva vedere quasi per intero un tailleur grigio attillato, che fasciava un corpo snello per niente male. Una camicia bianca aperta sul collo, dove spiccava una piccola croce d’oro tempestata di brillanti, e un paio di scarpe nere con un tacco non particolarmente alto completavano quel “look” da manager in carriera. Hugo l’aveva squadrata da cima a fondo, lanciando anche un’occhiata veloce ai due bambini, che a loro volta lo stavano fissando un po’ tremanti dal freddo e forse dalla paura. “Posso fare qualcosa per lei?”, disse Hugo, tirandosi su il bavero del giubbotto. “Sì”, esclamò subito la donna. “Ci porti sui Navigli”. “ ”Scusi se sono indiscreto”, chiese Hugo, “ma è quasi mezzanotte, è Natale, non mi sembra né l’ora né il giorno adatto per andare in giro per la città”. La donna lo fissò negli occhi, con sguardo deciso. “Non si preoccupi per noi”, rispose con fiero cipiglio, “e ci porti dove lo ho detto, grazie”. Hugo fece salire i tre, mise in moto e partì alla volta dei Navigli. Era attento alla guida, con quella nebbia la visibilità era ridottissima, ma non poté non essere attirato dal pianto controllato, sottotono, dei due bambini. Lei, la madre, cercava di consolarli, accarezzandoli sulle testoline bionde, senza però mai perdere la sua aria seria, senza lasciarsi andare, a sua volta, alla commozione. “Mi scusi ancora, ma perché piangono?”, chiese Hugo, a quel punto senza il timore di apparire insistente. “”Piangono perché il loro papà, questa sera, se n’è andato di casa”, rispose la donna. “E’ una storia lunga, cominciata tanto tempo fa. Ora però ci porti sui Navigli e scusi anche me, ma non ho voglia di parlare, grazie. “Ammetterà che la situazione è un po’ strana”, replicò Hugo, senza curarsi della sua affermazione. “E’ la notte di Natale, non c’è in giro nessuno, lei sbuca dalla nebbia con i suoi figli, che piangono, e mi chiede di portarla in un posto senza un indirizzo preciso. Non credo che siano fantasie tipiche di noi tassisti, sulle quali molti di noi costruiscono storie inventate, ma in questa faccenda c’è qualcosa che non capisco. Mi perdoni, lei non mi deve certo delle spiegazioni, e io dovrei semplicemente fare il mio mestiere. Ma non ci riesco, e sento che tutti e tre avete bisogno di aiuto. Le ripeto la prima domanda che le ho fatto: posso fare qualcosa per lei?”. La donna emise un profondo sospiro. Guardò i suoi figli, continuando ad accarezzarli, poi cominciò a raccontare. “Mi chiamo Sara, Sara Visconti. La mia è un’antichissima e nobile famiglia milanese, il mio cognome parla da solo, ma forse lei è di origini straniere, si sente dall’accento, e non conosce la storia di Milano. Mio marito, Lorenzo Sforza, un altro storico cognome di questa città, non è da meno. Ma lui da stasera non c’è più, ci ha lasciati definitivamente per rifarsi una vita con un’altra donna, non so nemmeno chi sia. So soltanto che ci ha abbandonati, e noi senza di lui non vogliamo più vivere”. “E cosa andate a fare sui Navigli? Da chi vi state recando? Avete appuntamento con qualcuno?”, chiese sempre più preoccupato e incupito Hugo, rallentando ulteriormente la velocità del suo taxi. “Sì, diciamo che abbiamo un appuntamento”, replicò Sara con un sorriso ironico e amaro. “Un incontro con una signora che risolverà i nostri problemi una volta per tutte”…Hugo 21 frenò bruscamente, all’altezza di Porta Genova. Accostò la sua vettura al marciapiede, si girò di scatto verso i tre, mentre i bambini continuavano a piangere sottovoce e si stringevano le manine, e con tono allarmato si rivolse alla donna, confidenzialmente. “Cosa sta dicendo, Sara? Cosa mi vuole dire? Non mi piace questo gioco dialettico, parli chiaro. Sì, sono straniero, ma non sono, come dite voi, qui a Milano, un pirla. Quindi, facciamola finita, ma non come penso che voglia fare lei”…Sara non si aspettava quella veemente reazione del tassista. Rimase in silenzio, mentre anche i bambini smisero di piangere, come se avessero avvertito la sensazione che qualcuno si stesse preoccupando di loro. Poi la donna emise un secondo, potente sospiro, questa volta, però, chinando il capo. Quando lo rialzò, due lacrime le stavano solcando il bel viso scavato, stanco, con un accenno di occhiaie che le davano, se possibile, un’aria ancor più interessante e seducente. Ma non era quello, il momento, per Hugo, di lasciarsi andare a fantasie erotiche. Continuò a fissarla, in attesa di una risposta precisa. Solo a quel punto lei, stavolta con un filo di voce, sussurrò: “Vogliamo morire, vogliamo farla finita, non ce la facciamo più”. L’espressione facciale di Hugo non fece una piega, sembrava una statua dell’Isola di Pasqua. Poi disse, alzando un po’ il tono della voce. “Cosa significa “Vogliamo morire?”. Anche i bambini vogliono morire? Ne sei sicura?”, la interrogò dandole del “tu” senza temere la sua reazione. Che infatti, non ci fu…”Se morirò io soltanto, loro che fine faranno?”. Sara provò ad abbozzare un’obiezione con poca convinzione, mentre i piccoli la guardavano senza emettere un gemito, trattenendo il fiato. Fiato che invece riprese Hugo, dopo aver ascoltato in silenzio, ma mai senza perdere di vista lo sguardo di Sara, quelle parole, pesanti come macigni. Poi l’uomo iniziò a parlare. “Quanto stai soffrendo, lo sai solo tu. Ma la sofferenza è il mezzo, scomodissimo, del quale il destino si serve per comunicarti che dentro di te qualcosa non sta andando come dovrebbe. Non è necessario augurarsi delle disgrazie per diventare una persona migliore, ma spesso è inevitabile che il dolore diventi così grande da essere insopportabile e allora, soltanto allora, che sei disposta a cambiare il tuo atteggiamento nei confronti della vita. Quando riuscirai a indirizzare sulla strada giusta la grande energia che la sofferenza ti sta elargendo a piene mani, allora sarai in grado di superarla”. Sara guardò Hugo come si può guardare un marziano appena sbarcato sulla Terra. “Ma tu come fai a dire queste cose? Che cosa ne sai della mia sofferenza?”, urlò la donna, con un violento moto di rabbia, piangendo ormai a dirotto. “E’ vero, non so nulla della tua, ma conosco bene la mia, e tanto basta”, rispose prontamente Hugo, senza alcun cedimento alle proprie emozioni. “La sofferenza è una, una sola per tutti noi, senza distinzioni di sorta. Ma quella che vuoi mettere in atto non è la soluzione giusta ai tuoi problemi. Ricordati che la vita è bella, comunque sia. E sorridi, sei bellissima, sai? Ama i tuoi bambini, sempre e comunque, come solo una madre sa amare”. Un’ondata di lacrime ricoprì il volto di Sara, mentre i suoi figli si strinsero a lei sempre di più. Hugo continuò il suo struggente monologo. “Quando le cose vanno male, non vediamo che il buio intorno a noi. Ma prima o poi la luce ritorna, basta avere la pazienza di aspettare. La vita è bella così”. Sara sentì un brivido salire lungo la schiena, aggredire il suo corpo snello e sinuoso. Poi ebbe uno scatto violento, come se volesse uscire di colpo dal taxi e fuggire il più lontano possibile da quella voce che nell’intimo gli parlava ancora di suicidio, di una soluzione finale, che l’avrebbe portata via lontano, insieme ai sui bambini, da Milano e dalla sua lussuosa abitazione, dove lei stessa ora, forse, voleva andare a rifugiarsi. Hugo la prese per un braccio, come se volesse trattenerla dentro la sua macchina, come se davvero lei stesse cercando di scappare. “No”, le disse, “la morte non è la risposta giusta alle tue pene d’amore. Ci saranno altre strade da percorrere. Vivere ancora a lungo, magari al fianco di un altro uomo che ti ami teneramente. Non sarà difficile, per te, voler bene a una persona così. Provaci, Sara. E adesso dimmi dove abiti, che ti accompagno a casa. Si è fatto tardi, e i bambini hanno bisogno di andare a letto. Fra poco dovranno aprire i regali che ha portato Babbo Natale”. Hugo mise in moto il taxi e si diresse in Corso Como, dove abitava quella bella e disperata famiglia. Si fermò al limite dell’isola pedonale. Scesero tutti, poi Sara e i suoi piccoli si abbracciarono a lui, come se fosse lui il perno di quel nucleo familiare. “Ricordati che io ci sarò sempre per te e per i tuoi bambini”, disse Hugo con gli occhi umidi. “Ora andate, altrimenti mi metterò a piangere anch’io”. Il tassista gentile seguì con gli occhi Sara e i suoi figli che si allontanavano lungo la strada. Quindi emise un potente e doloroso sospiro, salì in macchina e si diresse verso i Navigli. La mattina di Natale, un gruppetto di uomini e donne che facevano “footing” lungo le sponde della Darsena videro un taxi parcheggiato in seconda fila, con le frecce di emergenza accese e la portiera del guidatore socchiusa, come se l’autista fosse sceso in fretta e furia. Si avvicinarono, videro che nell’abitacolo illuminato dalla luce di cortesia non c’era nessuno, poi si sporsero sul parapetto del bacino d’acqua e videro un giubbotto galleggiare dolcemente. Sulle spalle c’era una scritta gialla di sbieco, “Hugo 21”…”Guardate, mi sa che il tassista si è buttato”, disse uno di loro agli amici. “Chiamiamo il 118, presto, ma come si fa a suicidarsi? A Natale, poi…E’ mai possibile che la gente non capisca quanto è bella la vita?”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)