Il mio primo bacio l’ho rubato a Cristina B. nell’estate del 1968. Finivo la terza media alla scuola Gian Battista Tiepolo di Piazza Ascoli a Milano. Maschi e femmine eravamo separati in due ali distinte della scuola che ci ospitava insieme al Liceo magistrale Virgilio, frequentato prevalentemente da ragazze. Il palazzo era monumentale. Costruito negli Anni ’30 dall’architetto Renzo Gerla, lo stesso a cui si deve il complesso di via Larga dove oggi risiedono gli uffici anagrafici del Comune di Milano e il Teatro Lirico, la struttura ospitava anche la caserma dell’Aeronautica Militare che dava su Piazza Novelli. Lo spazio creato dalle due scalinate di marmo che salivano al primo piano era lo spartiacque tra il corridoio maschile e quello femminile presidiato sempre da un paio di bidelle “formato famiglia” che vigilavano durante l’intervallo affinché non ci fossero contatti tra i due sessi. Era quello il punto dove potevamo incrociare gli sguardi delle ragazze, sorriderci, fare le facce, salutarci. Almeno all’interno della scuola.
Qualche giorno prima della fine dell’anno scolastico, era di giugno, con la complicità del ripetente Pietro B. organizzammo una trappola alle bidelle. Pietro finse di cadere e di farsi male rincorso da alcuni compagni ignari di quello che era stato imbastito. Nel parapiglia che ne seguì tra le bidelle protese a contenere una situazione che stava sfuggendo al loro controllo, si aprì un varco, un vuoto, una tregua, un attimo sospeso, nel quale maschi e femmine si fiondarono tra gridolini di gioia per quella inattesa libertà di movimento, senza sapere bene cosa fare, dove andare e come approfittarne. In quell’attimo, come se un regista ci avesse spinto entrambi all’azione (Cupido?), io e Cristina salimmo mezza rampa di scale. Lei davanti e io dietro. Poi lei si voltò quasi di scatto. Io le rovinai addosso e le nostre labbra di trovarono le une appiccicate alle altre. I miei occhi erano invasi dal suo viso, dal colore dei suoi capelli biondi e dall’azzurro dei suoi occhi. Non so quanto restammo appiccicati. Penso solo attimi. Ma quanta adrenalina in quel gesto proibito. Il cuore? Lui era già partito e prima di fermarsi occorsero diverse ore.
Quella stessa estate con mia madre Jole e mia sorella Raffaella andammo con una serie di nostri amici di famiglia in un villaggio del Club Med in Sicilia. Ricordo che, complice il mio compagno di scuola Massimo C. – mi rendo conto solo ora che ho sempre avuto bisogno di un complice nei miei primi approcci amorosi -, facemmo amicizia con due ragazze milanesi: una con capelli scuri e una biondissima e un po’ in carne. Dopo giorni di sguardi, sorrisi e ammiccamenti Massimo riuscì a combinare un appuntamento serale, dietro alcune barche. Fu lì che il mio primo capezzolo femminile si manifesto in tutta il suo splendore. Ricordo le mie mani da tarantolato che salivano e scendevano dal ventre ai seni di lei, senza sapere bene che fare. Fece capolino anche la mia prima lingua in bocca, che nel caso della mia partner, batteva contro una preistorico apparecchio ortodontico. Ero completamente inesperto di baci. Figurarsi di apparecchi per i denti. Più che il sapore di lei mi restò appiccicato per qualche giorno quel gusto aspro del metallo e delle viti che le raddrizzavano la dentatura. A dettare l’agenda di quel primo approccio amoroso furono le mani di lei, nel buio completo tra sabbia e palette. Io oltre ai baci e una strizzata di tette non seppi andare oltre. Feci la figura dell’imbranato. Massimo più esperto, apprezzò parecchio la disinvoltura con cui la brunetta dei Ricchi e Poveri glielo aveva menato. La bionda abitava in Corso Monforte a Milano. Case borghesi, quartiere chic. Nei mesi successivi ci vedemmo un paio di volte prima che ricominciasse la scuola. Lei era troppo giudicante. O forse ero io che sentivo la differenza di ceto. Lei ricca. Io no. Lei con una famiglia tutta ovattata. Io ancora alle prese con la morte di mio padre. Non ci vedemmo più.
Sempre in quell’estate del 1968 a Locri, nella casa dei nonni Piera e Giulio, dove trascorrevo le vacanze scolastiche, mi innamorai. Era la prima volta. Lei si chiamava Alba. Andavo a prenderla sotto casa con la complicità di mia zia Liliana per andare al mare. Indossava un costume intero a fiori e spesso una maglietta bianca con un grande ananas applicato sul petto che era già appuntito. Alla fine di quella estate in cui ci tenevamo mano nella mano torcendoci le dita nell’unico cinematografo del paese tra ragazzi venuti giù con la fiumara, mentre io ammiravo le sue gambe perfette e abbronzate, scoprii due cose: la mafia e la masturbazione. Per farmi capire bene che cosa fosse la mafia un giorno venni avvicinato alla stazione ferroviaria – dove avevamo accompagnato una amica in partenza – da un ragazzo decisamente più grande di me (di età) che mi chiamò in disparte per dirmi che “un amico” mi consigliava di lasciare perdere l’amicizia con Alba, Un consiglio? Sulle prime me la stavo facendo addosso, ma poi pensai: il milanese – così venivo apostrofato – batte in ritirata? Giammai. Risposi incoscientemente che me ne sbattevo delle loro tristi regole tribali (anche se io in fondo sono nato proprio lì), e che quelle minacce non mi facevano né caldo né freddo. Feci l’errore di accennare questo episodio ad Alba che inizio a farsi vedere sempre meno. Ma prima della mia partenza per Milano mi regalò il grande ananas scucito dalla sua ‘maglietta fina’. Fu la prima ragazza a cui scrissi una lettera d’amore. Di lei dopo quell’estate non seppi più nulla. Nel senso che i cambiamenti di quegli anni e soprattutto l’effetto minaccia si fece sentire. Era predestinata ad altre compagnie, altri ambienti.
Ma ormai avevo 14 anni e la relazione con le femmine per me significava soprattutto relazionarsi con il femminismo che si manifestava nelle piazze e nei nuovi comportamenti delle ragazze di Milano. Il femminismo me lo sono beccato tutto. E su di me ragazzino, senza guida paterna, circondato in casa solo da femmine e con una madre che mi aveva già sradicato le palle, è stato molto difficile trovare un ruolo, una strada. Un compromesso. Nei mesi e negli anni post ’68 il femminismo con tutte le sue istanze mi ha sbatacchiato di qua e di là senza pietà. Crescevo ometto di casa, giudizioso e premuroso, “devoto” alla mamma fonte di vita e di sostentamento che mi teneva stretto con i ricatti di tutte le mamme del mondo. Adesso che non c’è il tuo papà devi essere tu l’ometto di casa, devi aiutare tu nelle faccende domestiche quando mamma non ce la fa, devi fare il bravo bambino e non fare arrabbiare la mamma che lavora di giorno e di sera a scuola per mantenere te e tua sorella. Dall’altro lato pulsava una attrazione fatale verso il femminile, le ragazze, le donne che allora erano soprattutto occhi, capelli, labbra, gambe, glutei, seni. La figa arrivò dopo. Ma tutto ciò era ancora un tabù per me. Erano gli anni della Comune di Dario Fo, delle prime uscite serali, delle chiavi di casa in tasca. Respiravo libertà a pieno polmoni. Acquistai tra i tanti Educazione Sentimentale di Flaubert per cercare di capire i cambiamenti miei e soprattutto di interpretare i sentimenti, i dolori, le domande che mi facevo rispetto al mondo femminile. Se le pasdaran del femminismo che a quei tempi giravano armate di Sibilla Aleramo, Simon de Beauvoir, Doris Lessing e Margaret Atwod, mi avessero beccato solo a immaginare che mi sarebbe tanto piaciuto farmelo succhiare da una di quelle stramaledette e bellissime ragazze, che incrociavo in città, mi avrebbero appesa nella pubblica piazza Santo Stefano di fronte all’Università Statale di Milano, facendo a sushi il mio pisello. Altro che Isis.
Quelli erano anni in cui qualunque cosa pensassi o facessi mi sentivo fortemente inadeguato, imperfetto, sbagliato. Arrivarci da adulto nel 1968, invece che da imberbe quattordicenne, avrebbe significato giocarsela alla pari. Prenderle ma anche darle. Comunque a 14 anni quando ero pronto sui nastri di partenza col testosterone a mille per iniziare la conquista delle giovani amazzoni, mia madre che mi fa? Mi iscrive in un Istituto Tecnico con una presenza maschile del 99,9%. Minchia ragazzi, mi sono fatto cinque anni circondato praticamente solo da maschi. Ma vi rendete conto? Se non fosse stato per compagni delle scuole medie che frequentavano i migliori licei classici di Milano, avrei avuto il primo incontro ravvicinato con una donna a trent’anni. Ero costretto a elemosinare gli inviti alle feste a quelli del Berchet, del Carducci. Ma a salvarmi furono soprattutto gli amici del liceo classico Parini. Il bouquet di belle ragazze che quel liceo poteva esibire in quegli anni era spettacolare e fantasmagorico (no, non è un errore di ortografia) per un allupato come me. Venivo invitato alle feste del sabato pomeriggio e mi sentivo sempre sopra le righe, eccitato, fuori luogo. Non ero abituato alla relazione maschio e femmina. I miei ex compagni delle medie, invece, oltre ad avere più dimestichezza con le ragazze, potevano relazionarsi con la perspicacia, intelligenza, delicatezza e senso dell’ironia delle loro compagne. Di quelle figlie nate in pieno boom economico da famiglie agiate di una Milano borghese a cui non mancava proprio nulla. In questa mia ricerca di educazione sentimentale poi arrivò la politica e ne fui travolto…
Che credito si poteva dare a un ragazzo che alle feste si presentava con eskimo e anfibi ai piedi? Ripensando a quei tempi, alle manifestazioni, alle occupazioni, oggi capisco che molte mie azioni di allora erano dettate dalla necessità di fare il galletto in quel tappeto di pelo variopinto che mi si presentava davanti nelle assemblee, per il quale provavo molto più interesse che per i contadini cinesi, Mao e la loro rivoluzione del cazzo! Sì lo ammetto: il vero motivo per cui partecipavo alle assemblee in Statale era la presenza di figa. Forse lì sarei riuscito ad acchiapparne qualcuna, pensavo. Mi esponevo a cariche della polizia, a fughe di gruppo, a estenuanti assemblee dove in pratica non ci capivo mai una beata mazza di niente, intento com’ero a inseguire tutte quelle minigonne. Quelle che, non solo aprivano la bocca, ma dicevano anche cose intelligenti. E ogni volta io sprofondavo nel mio buco nero. Consapevole di quanto non sarei mai stato in grado di tenere a bada quelle valchirie cazzute e dialetticamente preparate su qualunque argomento affrontato nell’ordine del giorno… Cazzo compagni! Da uno scalino dell’aula magna della Statale le osservavo intervenire su argomenti che allora mi apparivano degni di un premio Nobel. Determinate, sicure, affascinanti: apparivano così ai miei occhi di adolescente ignorante delle dinamiche e della dialettica tra i due sessi. Dinamiche che sono rimaste incomprensibili per decenni e verso cui ancora oggi nutro qualche perplessità. Nel senso che sul “senso della figa per Domenico” non ho ancora le idee molto chiare.
Vedevo gli altri limonare, baciarsi, toccarsi, desiderarsi e restavo lì a chiedermi come avrei mai potuto entrare anche io in quel magico gioco. Come avrei mai potuto avvicinare una giovane, alta e preparata militante di Avanguardia Operaia o di Lotta Continua o slinguare una cazzuta compagna del Movimento Studentesco con tutti quei picchetti a sbarrare la strada? Ma i picchetti non erano reali, stagnavano dentro di me. Riassumendo: partivo già timido, ragazzino e chiuso in me stesso, non frequentavo il liceo e quindi non ho avuto molte (nessuna!) occasione di scambio, vivevo in una mezza famiglia con una madre che pensava al sostegno economico più che costruire relazioni sociali. Cosa mai poteva venirne fuori? Forse mi sono messo a scrivere questo testo per fare giustizia di quanto ho patito e sofferto. Gridare al mondo di come ho lasciato trascorrere il tempo pensando che la cosa più importante per cui ero venuto al mondo fosse dimostrare il mio essere un bravo bambino, un bravo ragazzo, un brav’uomo. Onesto, ubbidiente, riverente, corretto. Ero stato chiamato per essere “in linea” con gli ideali e le aspettative dell’ambiente in cui mi sono trovato a vivere. Ho trascorso più di metà della mia esistenza nell’illusione di trovare motivi di redenzione per la mia anima mai paga. Assumevo comportamenti politicamente corretti nel sociale come nel privato per cercare di aderire a una realtà che non mi apparteneva. Annullavo me stesso, assottigliandomi sempre di più fino a diventare un ectoplasma, un nulla. Domenico chi, scusa? Non mi sono accorto di lui. Ha bofonchiato qualcosa alla sua festa di compleanno, al matrimonio di sua sorella, alla comunione della prima figlia, al funerale dello zio, alla compagna nel giorno del loro anniversario, a quel capodanno dove era stato invitato perché scambiato per un altro! Molte sono state le pietre miliari che hanno ferito la mia anima, il corpo, la psiche, la mente, i miei sogni. Massi da cui sembra sempre che non ci si possa liberare, da cui non ci si risolleva facilmente.
In quegli anni ho sempre avuto la necessità di dimostrare di avere una visione progressista della vita. Mai una volta che mi fossi concesso di gridare al mondo che Il Mio canto libero di Lucio Battisti a me piaceva. Per omologarmi ed essere accettato dalla comunità che frequentavo mi sono sempre imposto di pensare cose di sinistra, sognare sogni di sinistra, mangiare cibi di sinistra, leggere romanzi e saggi scritti da autori di sinistra, dire cose di sinistra, guardare film di sinistra, ascoltare musica di sinistra, informarmi con giornali di sinistra, avere solo amici di sinistra, difendere i valori della sinistra, concepire solo cose di sinistra, cagare merda di sinistra, curarsi come si cura la sinistra, bere vino e liquori di sinistra. Ho trascorso i migliori anni della mia vita rincorrendo la Sinistra. E a un certo punto mi sono convinto di essere anche io una persona di sinistra. Ho avuto una relazione con una ragazza che sarebbe diventata la mia compagna, quella donna con cui ho trascorso decine di anni sotto lo stesso tetto e con cui ho condiviso e diviso molti bei momenti della mia esistenza. Ho avuto una figlia la prima, splendida. (Anche la seconda è splendida). Verso il mio passato non ho odio, risentimento e rancore. Con il tempo e la maggiore consapevolezza, ho cercato di inglobare e non separare la mia vita da me. Le cose che di me non mi piacevano non le ho lasciate là fuori a navigare alla deriva della mia esistenza, cercando di rinnegarle. Ci sono voluti anni di lavoro per riuscire a ottenere tutto questo. Allora ero accerchiato. Il mio senso di colpa per la morte di mio padre, la necessità di riscatto e di dire al mondo non sono stato io la causa della sua morte, “vedete come sono bravo con la mamma, giudizioso, premuroso”, si sono mischiate con la necessità di dimostrare al mondo che ero nel giusto, nel corretto che non ero uno contro. Uno sfinimento di cui non mi sono ancora liberato…
Domenico Megali (giornalista e scrittore)