Come definire il rapporto fra Milano e Napoli? Diciamo subito che Milano, nel suo dialogo con la città alle pendici del Vesuvio, ha sempre avuto occasione di sfoggiare l’aspetto più puritano e calvinista del suo carattere. Ma, dall’altro lato, ha trovato una città che, forte del suo essere stata ridente capitale di un florido regno, non ha mai abbassato la testa e non ha mai mostrato alcuna sudditanza.
A Milano era in voga un brutto termine per definire i meridionali arrivati qui per lavorare: “terroni”. Ma, si doveva ammettere, i napoletani erano la “terronità” fatta persona, perché erano ben fieri delle loro origini, della loro storia, della loro cultura. E sfottevano volentieri i milanesi.
Non si può dimenticare la geniale scenetta di Totò e Peppino alle prese col vigile urbano milanese, a cui si rivolgono in un francese men che maccheronico, perché convinti che noi milanesi siamo stranieri, che nemmeno parlano l’italiano.
Sì, perché a Milano arrivarono anche tanti napoletani, che andarono a lavorare nelle fabbriche, fecero i custodi nei condomini, gli uscieri nei palazzi pubblici, ma aprirono anche le migliori pizzerie della città, e poi si insediarono anche nelle cattedre universitarie, nei posti dirigenziali nella magistratura, nelle forze dell’ordine e nelle banche.
I napoletani erano forti e colti e se si sentivano emarginati, sapevano fare gruppo e affermare con fierezza la loro cultura, la loro civiltà e il loro saper vivere.
Così, se il milanese calvinista li guardava con diffidenza, dicendo: “Loro avranno anche il mare, i paesaggi e la buona cucina, ma qui hanno dovuto venire per stare bene”, il napoletano rispondeva senza soggezione “A Napoli ce sta o’ mare e qui? Qui ce stanno solamente i navigli”.
Così la napoletanità è entrata a tutti gli effetti nella cultura metropolitana milanese.
Mi ricordo quando ero bambino, a Natale. Mia mamma andava al mercato a fare la spesa per il pranzo natalizio e comprava le cose classiche del Natale milanese, gli antipasti: la galantina di vitello col tartufo, il marbré, il prosciutto, rigorosamente San Daniele, perché è Natale. Poi il paté, i ravioli freschi da fare in brodo, i tagli per il bollito. In mezzo a tutto quel ben di Dio, ricordo la vaschetta dal salumiere, in cui, in un brodo scuro venato dalle striature verdi delle erbe aromatiche, giaceva, arrotolato, una sorta di serpente pitone, degno dei romanzi di Emilio Salgari. Il cartello davanti alla vaschetta recava la scritta “capitone”.
E io chiedevo: “mamma, cos’è il capitone?” E mia mamma “E’ anguilla, roba da napoletani”.
Però, quella “roba da napoletani”, si era guadagnata il suo posto in mezzo alle leccornie natalizie tipicamente milanesi…
Marco Lombardi (giornalista e scrittore)