Gli amici lo hanno soprannominato “Il poeta del barrio”, per le sue origini italo-argentine e perché ha cominciato giovanissimo a scrivere poesie. Antonio Santiago Ventura, 29 anni il prossimo 16 luglio, madre argentina e padre italiano, ha un passato difficile e complesso alle spalle e un futuro ancora tutto da scrivere. E lui, dunque, scrive. Scrive poesie in cerca di un titolo e soprattutto di un editore, che sappia coglierne appieno la natura e il valore. “Ho frequentato il liceo artistico e avevo anche una buona mano”, racconta sospirando il giovane poeta, “ma la mia passione adolescenziale era la scrittura in versi. Con la nostalgia di un mondo perduto narravo personaggi e vicende legate al Terzo Mondo, ma anche al mio mondo interiore, avvertendo un profondo senso di non appartenenza. Poi sono maturato, il verso è diventato più asciutto e intenso, dal sapore mistico, il senso religioso ha preso forma. Oggi sono un uomo in continua ricerca, anche se devo confessare che spesso questa ricerca mi sfugge”…
Come nasce e si sviluppa dentro di te questa forma davvero altissima di espressione?
“Dopo avere letto Walt Whitman nacque in me l’attitudine a questa forma di scrittura creativa. E’ la più rapida e potente. Almeno io la vivo così, perché scrivo di getto. E la mia ispirazione la trovo tendenzialmente di notte”.
La Poesia spaventa tutti quelli che la temono per il suo potere taumaturgico e per la sua capacità di aprire il cuore e la mente degli esseri umani. E’ così?
“Non credo che la poesia spaventi. E’ più spaventoso uno scritto di verità, come può essere un testo buddhista o il Nuovo Testamento. La Poesia spesso è menzognera. Nietzsche diceva dei poeti che sono esseri sporchi e poco profondi”.
Personalmente penso che la Poesia sia anche un atto di pace e di amore, ma spesso i poeti sono costretti dalle circostanze a combattere chi questa pace e questo amore vuole distruggere. Qual è la tua opinione?
“Forse amore, ma la pace di certo no. La Poesia porta disturbo. Deve portare disturbo. Se non lo fa, allora non è Poesia”.
Che cosa significa essere un giovane poeta nell’era della tecnologia, dove tutto corre molto veloce e inaridisce l’animo umano?
“Il poeta oggi, come qualsiasi altro uomo riflessivo, è costretto a fare i conti con la propria solitudine, con la propria naturale inadeguatezza a un ritmo eccessivamente accelerato. I futuristi amavano la velocità e le macchine, ed erano poeti. Forse si può vivere bene anche in questo tempo, anche se faccio fatica a crederlo. I futuristi non avevano ancora a che fare con la desertificazione delle grandi autostrade e delle grandi multinazionali. Per non parlare del digitale”…
E a proposito di abbrutimento dell’anima, Antonio: come hai vissuto e come stai ancora vivendo questo periodo di grandissima emergenza sanitaria? Che idea ti sei fatto, a questo punto, della situazione?
“Trovarsi nel mezzo di una pandemia è una sfida, come tante altre difficoltà della vita. Deve essere affrontata senza paura, senza lasciarsi prendere dal panico e soprattutto dalla paranoia”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)