Il televisore portatile, appoggiato sul comodino un po’ traballante, gracchia fastidiosamente mentre cerco, nervosamente, di sintonizzarlo su un canale qualsiasi, muovendo avanti e indietro la piccola antenna posta sulla sua sommità. La radiolina a transistor di un altro paziente, un vicino di letto di Papà, ricoverato in quei giorni all’Ospedale Sacco, ha già urlato la notizia: un piccolo aereo da turismo si è schiantato contro il Grattacielo Pirelli, dove aveva sede il Consiglio Regionale della Lombardia. Era il 18 aprile del 2002, e la mente era andata subito al tremendo attentato alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre dell’anno precedente, quando gli aerei pilotati dai terroristici islamici di Al Qaeda avevano sbriciolato quegli imponenti simboli della cultura occidentale.
Papà mi guarda ancor più stranito di quanto non lo fosse già, poveretto, a metà fra la coscienza e il principio di demenza senile che lo aveva colpito, in seguito alla profonda depressione che se lo stava portando via a 82 anni e dopo la grande emozione provata nell’incontrare la Mamma, ricoverata in un altro reparto dello stesso ospedale, per le cure necessarie al suo cuore ballerino. Eravamo andati a trovarla seguendo un corridoio interno, lui sulla sedia a rotelle e con una torta per diabetici sulle gambe e io a spingerlo con grande commozione. Quel giorno era il compleanno di mia madre e avevo fortemente voluto che si incontrassero, lei e Papà, come se avessi sentito l’approssimarsi della fine di lui, che puntualmente (la morte è sempre puntuale) avvenne la settimana successiva. Papà, dicevo, aveva sentito come me la notizia dello schianto e cercava, proprio come me, di saperne di più. Alla fine del mio armeggiare intorno al televisore riesco a prendere Retequattro, con l’edizione straordinaria in diretta dell’immancabile e immarcescibile Emilio Fede, sempre in anticipo su tutti, quando si trattava di bruciare la concorrenza e fornire informazioni in anteprima, con la sua consueta spettacolarizzazione dell’evento. La voce del Direttore commenta le immagini che arrivano dall’edificio in fiamme, all’angolo di Piazza Duca D’Aosta, dove si trova anche la Stazione Centrale, e io, per un po’, resto in silenzio, in piedi, accanto al letto di Papà, a seguire il telegiornale. “Si contano tre morti e circa 70 feriti”, annuncia Fede. Ai comandi del velivolo, un Rockwell Commander, partito dall’aeroporto svizzero di Locarno con destinazione Milano-Linate, dove avrebbe dovuto effettuare uno scalo per poi rientrare alla località di partenza, c’era il 67enne Luigi Fasulo, un commerciante elvetico di chiare origini italiane. Il piano di volo prevedeva due possibili rotte: Locarno-Saronno-Torre della Telecom di Rozzano-Rogoredo-Linate, oppure Locarno-Lago Maggiore-Varese-Milano-Linate. Fasulo chiese alla Torre di controllo di Linate l’autorizzazione all’atterraggio, autorizzazione che gli fu negata per problemi di traffico.
Subito dopo, il pilota ticinese comunicò la presenza di un’anomalia al carrello. Gli venne ordinato di “circuitare” su un anello di attesa, un percorso aereo a forma di ellisse, che si sviluppa lungo la periferia della città. Fasulo, probabilmente impegnato nel controllo dei vari comandi (spie del carrello, comando manuale di apertura di emergenza, fusibili dell’impianto elettrico), non si accorse di aver sbagliato rotta, e invece di dirigersi, appunto, sul circuito di attesa, andò verso il grattacielo Pirelli, il “Pirellone”, come lo chiamano i milanesi. Nell’ultimo tratto della rotta l’uomo aveva il sole in faccia, un particolare, questo, che può aver contribuito a nascondere l’edificio alla sua vista. Alcuni testimoni riferirono di aver visto l’aereo accennare una virata con il motore al massimo, ma ormai era troppo tardi per evitare l’ostacolo e il piccolo velivolo si schiantò contro il 26esimo piano, sprigionando immediatamente un vasto incendio che sarebbe stato spento dai Vigili del Fuoco soltanto dopo alcune ore. “Papà, scusami, ma io devo andare. Ci vediamo domattina, te lo prometto, arrivo presto”. Ricordo che dopo aver appreso così la notizia mi congedai in tutta fretta da mio padre e corsi fuori dall’ospedale, in preda a un delirio da deformazione professionale. Saltai sulla mia macchina e mi recai sul posto dell’incidente aereo. La zona era tutta transennata e parcheggiai abbastanza lontano da lì. Feci tutta la strada a piedi e quando arrivai nei pressi telefonai al mio collega Stefano Mosca, che beatamente sprofondato sul divano di casa sua mi diede subito del pazzo maniaco, dicendomi: “Ma dove corri? Ti ricordi, vero, che lavoriamo in una televisione e tu non hai una telecamera con te, oltre al fatto che dovresti saperla usare?”. “Chiama un cameraman e mandamelo qui”, gli dissi io, tutto preso dalla foga di testimoniare l’accaduto. “L’ho già fatto, e sono tutti e tre irreperibili”, mi rispose sempre più serafico Stefano. “Quindi, stai calmissimo, torneremo sulla notizia nei tg di domani”… Ormai sono quasi arrivato e vedo chiaramente la colonna di fumo che si scorgeva già da lontano e che aveva raggiunto ogni casa della città, provocando il panico e lo sgomento fra la gente di Milano. Il grattacielo simbolo della Lombardia era stato colpito e per precauzione furono evacuati i palazzi limitrofi e gli alberghi, mentre il grado d’allerta del Comando della Difesa Aerea era ai massimi livelli. Mentre mi aggiro tra le vie adiacenti al “Pirellone”, che sono tutte un brulicare di persone, pompieri, volontari e Forze dell’ordine, vedo che gli agenti hanno inquadrato i colleghi giornalisti delle varie testate presenti sui gradini della scalinata di un edificio pubblico nei pressi, tutti allineati su più file, come per una foto-ricordo collettiva. Mi rendo conto che avvicinarmi significherebbe essere precettato in quel plotone, costretto a stare immobile ad aspettare le notizie fornite dalle autorità preposte a farlo. Continuo a camminare e a cercare di avvicinarmi il più possibile al teatro della disgrazia. Non so come, ma infilandomi tra due auto in sosta davanti alla sbarra di un parcheggio e camminando come un antico egizio in quello spazio angusto mi ritrovo davanti alle serrande abbassate di una fila di garage. Alzo istintivamente la testa e vedo stagliarsi, in tutta la sua grandezza, proprio il “Pirellone”, esattamente dal retro, rispetto alla facciata colpita dall’aereo di Fasulo. Poi guardo ai miei lati, prima a sinistra e poi a destra, come se dovessi attraversare una strada, e vedo due file di poliziotti schierati a formare due barriere umane impenetrabili, davanti a grossi nastri adesivi bianchi e rossi, srotolati a simulare vere transenne di metallo. E ora, come ne esco? Come giustifico la mia presenza qui? Mi faccio queste domande mentre li guardo e mi guardo. Sono vestito abbastanza elegantemente, in giacca e cravatta. Per istinto, afferro il telefonino e richiamo Stefano, raccontandogli la scena. Lui ride e mi dice: “Sono tutti cazzi tuoi”. Allora gli chiedo di restare in linea e continuando a parlare della vicenda punto dritto verso una delle due barriere di agenti, che vedendo il mio passo deciso e l’atteggiamento seriamente professionale si aprono, alzano il nastro adesivo e mi lasciano incredibilmente passare, salutandomi, senza fermarmi e chiedermi niente. Penso che mi abbiamo scambiato per un dirigente di Polizia, non riesco ad immaginare altro. Però mi viene da sorridere e faccio fatica a trattenermi.
Poi mi allontano, sempre a passo svelto, rassegnandomi a raggiungere la truppa di colleghi allineati e coperti sugli scalini di quel palazzo pubblico. Mi raccontano tutti che oltre a Fasulo sono morte due donne, due avvocati dell’ufficio legale della Regione Lombardia, che lavoravano proprio al piano colpito dall’aereo, Anna Maria Rapetti e Alessandra Santonocito. Al momento dell’impatto, al “Pirellone” c’erano soltanto 300 degli oltre 1.300 dipendenti perché a quell’ora, alle 17.45, la maggioranza di questi aveva finito l’orario di lavoro. E a quel punto anche il mio di lavoro, completamente inutile, vista l’impossibilità di realizzare un servizio televisivo, era terminato. Me ne torno a casa con le pive nel sacco e la tristezza per quello che era accaduto, per quelle tre vite spezzate da un tragico destino che le aveva accomunate. Su quella vicenda, oggetto di una lunga inchiesta giudiziaria, sono state avanzate ipotesi di ogni tipo. Esclusa subito la pista terroristica, richiamata appunto dai fatti americani dell’anno prima, si pensò che Fasulo avesse tentato il suicidio per problemi economici. Si venne a sapere, infatti, che l’uomo, prima di quel drammatico 18 aprile del 2002, fu raggirato da una banda internazionale di truffatori e che per questo avesse perso quasi due miliardi delle vecchie lire, affidati a un fantomatico mercante d’arte, che gli aveva garantito il raddoppio di quella somma ingente nel giro di un anno. Fu lo stesso Fasulo, un mese prima di andare a schiantarsi contro il “Pirellone” a denunciare il fatto. Gli investigatori sequestrarono diversi incartamenti e una rilevante documentazione bancaria proprio nelle abitazioni di alcuni esponenti dell’organizzazione criminale, che vennero arrestati. Fra questi, c’erano alcuni imprenditori, un commercialista, un consulente finanziario e il fratello di un grosso trafficante di droga, ucciso in Venezuela dalla polizia in una sparatoria. E in quella truffa, finì anche un noto istituto di credito milanese, in cui agiva fraudolentemente un funzionario che curava personalmente operazioni ad alto rischio economico, praticamente senza copertura finanziaria, anche tramite altre banche con sede in Svizzera. Da quei fatti, in seguito, partì l’indagine per appurare il presunto suicidio di Fasulo. Dopo una prima richiesta di archiviazione, i magistrati puntarono il dito contro i responsabili dell’aeroporto di Linate, ritenendo inspiegabile il fatto che un aereo da turismo fosse penetrato nello spazio cittadino interdetto al sorvolo e confortando, così, la tesi sostenuta dal figlio di Fasulo, secondo cui suo padre non fu l’unico responsabile dell’incidente. Alla fine, ancora oggi, secondo l’Agenzia nazionale per la sicurezza dei voli, le cause di quella misteriosa tragedia milanese sono tutte da ricercare “nell’incapacità del pilota di gestire in maniera adeguata la condotta della fase finale del volo, in presenza di problematiche tecnico-operative e ambientali”. Insomma, la colpa fu tutta di Luigi Fasulo. Che è morto, e che come tutti i morti, si sa, non può più parlare con nessuno…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)
(Immagine di copertina tratta da Avvenire.it)