E’ molto attiva sulla sua pagina Facebook. Da lì attira l’attenzione dei mezzi d’informazione e di tutti gli appassionati del “bello scrivere” perché le sue parole, in poesia e in letteratura, sono struggenti, commoventi, delicate, colme d’amore per la vita. Ed è proprio attraverso quel social network che è nata la nostra amicizia, fatta di tanto affetto e di una grandissima stima reciproca. Quando torno nella mia terra natia una visita a casa sua è ormai diventata una piacevole e calda tradizione da rispettare, una carezza sull’anima ormai irrinunciabile. La poetessa e scrittrice Letizia Dimartino, messinese di nascita e ragusana di adozione, è una delle ultime rappresentanti di quella borghesia siciliana della quale oggi si sono quasi totalmente perse le tracce. Davanti a una tazza di tè e a un vassoio di dolcetti tipici locali parliamo amabilmente un po’ di tutto e quindi non potevamo escludere dalla nostra conversazione Milano. La nostra Milano. Sì, perché la signora Dimartino ha vissuto qui tanto tempo fa, seppur saltuariamente. “Sì, ero una bambina e poi una ragazzina”, racconta. “Arrivavo in treno con la mia famiglia, dopo una lunga notte insonne, e già alla Stazione Centrale era subito felicità. Il tè sorseggiato appena scesa dal convoglio ferroviario aveva il sapore più buono che potessi desiderare perché il caldo patito nello scompartimento pregno di odori necessitava proprio di una bevanda. Si arrivava dopo aver guardato al finestrino dalla tenda impolverata, i filari e le case immerse nella nebbiolina che non conoscevamo, noi che solitamente, in Sicilia, ci alzavamo dal letto col sole sfacciato…E poi la città, che irrompeva con un odore tipico, di umido, di auto, di belletto. Era Milano. La Coin di Piazza Cinque Giornate immerso nella foschia, la Rinascente illuminatissima, sogno e stupore. Noi seduti al caffè della Galleria Vittorio Emanuele, in una sera in cui tuonava e la paura era mista al piacere di essere nell’incanto. Le signore in cappello che assaggiano dolci colorati, i camerieri silenziosi che ci mettevano paura. E poi le saracinesche abbassate d’un tratto, la Polizia schierata, la corsa sotto i portici, Piazza della Scala attraversata di corsa col sorriso e la vacuità della gioventù.
La metropolitana mi avrebbe messo in salvo dagli anni ’70 che incombevano su una città che voleva vivere”. I ricordi di Letizia Demartino sono un meraviglioso fiume in piena di emozioni e sentimenti. “L’aria a Milano era diversa in autunno. Tremava, si addensava, avvolgeva il mio nuovo cappotto di velluto nero. Cielo e auto, alberi e strade e un rumore sordo di città. Erano mattini tiepidi, senza il vento di Sicilia. Mangiavo pane tostato, il cavalcavia nella periferia e sirene spiegate. Poi il sole a mezzogiorno, il golfino da togliere, le vie umide che evaporavano la nebbia leggera. E negozi. E uno scoramento dentro. Gli ospedali, i medici, le loro segretarie vestite di grigio. Il taxi, il temporale che si avvicinava. E si faceva sera”…Hai nominato i negozi, Letizia cara…”Sì, i negozi della Milano di una volta. Vendevano cappellini colorati e turbanti e guanti di pelle lussuosi su mani mozze di legno come manichini. Negozi di tessuti di lane pregiate affacciati sul Duomo e uomini che vi compravano, con occhio esperto, stacchi di pelo di cammello. Negozi di dischi dalle luci sfavillanti e pieni di giovani ed anziani in ascolto. Salumerie con insalate russe e involtini gelatinosi e torte di formaggio con le noci adagiati nelle vetrinette come gioielli. Piccole pasticcerie con strudel e torte tirolesi e viennesi, frolle con frutti di bosco e commesse dai grembiuli bianchi. Panetterie con focacce calde e michette vuote ma graziose, i fornai con il cappello impolverato di farina. Profumerie brillanti come diamanti dalle proprietarie belle e altezzose, i loro capelli ossigenati e i foulard al collo. Fiorucci dagli abiti scherzosi e colorati, tutto nel disordine e nella musica. Le farmacie di Corso Vittorio Emanuele con i proprietari alti e gentili dallo sguardo lungo come una scia misteriosa. Orecchini e bracciali di plastica appesi dietro i vetri in sequenze originali. Gattini siamesi e cuccioli di cani nelle cucce, in attesa di essere comprati, ma tristi fra i cuscini dietro i vetri. Le verdure fuori stagione nelle botteghe di lusso. I caffè dai rumori sommessi e dai dolci minuscoli e insapori. E su tutto i neon intermittenti nella sera dal sapore di nebbia di Piazza Duomo. Le auto nere e lucide dai fanali gialli a fendere l’aria scura e densa. Il freddo, i baveri sollevati. Le commesse che tornavano in gruppo a casa, ricciolute e chiassose, le loro mani sulle bocche timide. Era la mia Milano, era sempre lei”…Una Milano “femmina”, perché Milano è femmina. O no, Letizia? “Sì, Milano è femmina, eccome. A mezzogiorno giravamo intorno alla villa di Maria Callas, in una via d’alberi bruni. Le finestre aperte, le tende accostate, il giardino e lei che immaginavo nel mistero. Il pomeriggio, nel grigio densissimo di un autunno precoce, andavamo alla Scala a vedere Carla Fracci, esile e bianca. Fuori pioveva piano piano, un velo di nebbia sulla piazza all’uscita, il senso del lontano, la casa irraggiungibile, la Sicilia che sembrava non esistere. E quelle ballerine… Quanto mi sarebbe piaciuto essere una di loro”…
Oggi a Milano vivono i tuoi figli, Francesca e Silvio. Vuoi parlarci di loro e di come vivono la loro città di adozione? Cosa ti raccontano?
“Quello che mi dicono mi riempie e pure intristisce. Per quello che è diverso, per i cambiamenti, per il tempo che è trascorso togliendo e dando. Loro ci abitano contenti, mi telefonano mentre la città riecheggia al cellulare, le voci nella metropolitana, i clacson, le fermate annunciate dalla voce metallica. Mi spiace che non esistano più certe abitudini, ma so che i miei figli vivono come “protetti” dalla città di oggi. E cerco di fare sonni sicuri quando penso a loro, poco prima di addormentarmi”.
Seppur da lontano, osservi sempre con attenzione la nostra città, la città che hai amato. Com’è cambiata e come sta ancora cambiando, secondo te?
“La posso solo immaginare. La molteplicità delle etnie, il flusso di idee, i grattacieli e i quartieri nuovi, la Galleria sempre uguale e le insegne in Piazza Duomo, i ristoranti tipici e non, la Stazione Centrale invasa da tanti, la metropolitana al mattino. Avrò una visione edulcorata, chissà”…
Il 2020, a Milano, sarà “L’Anno della Donna”. Ritieni Milano una città, appunto, a misura di donna? Ambiti come la cultura, la sicurezza e il lavoro privilegiano la condizione femminile?
“A questa domanda non so rispondere. Sono troppo lontana. Ma a Milano la donna ha sempre lavorato e ricordo figure in studi di medicina, in ospedali e cliniche e in negozi immensi pieni di donne valide e rispettate. Niente può essere cambiato, anzi”…
In conclusione, Letizia: che opinione hai (se ce l’hai) del fenomeno dell’immigrazione a Milano?
“Guarda, mia figlia lavora a Milano da tanti anni e non si strugge per la Sicilia lasciata ormai da molto tempo. Non subisce nulla, il lavoro è pesante, si pretende fortemente, ma la città ripaga in ogni caso. Prima i miei zii soffrirono per la mancanza di integrazione e vissero semi isolati, pur facendo lavori degnissimi da laureati. Ma il loro accento, le abitudini diverse, il passato, tutto contribuì a una difficoltà che restò nei loro cuori. Cuori che però restarono legati a Milano, fino alla fine”…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)