Sono storie ormai di ordinaria, preoccupante e malinconica quotidianità. Lavori per molti anni, stai per raggiungere l’agognata pensione, ma ti ritrovi a spasso e non trovi più un’occupazione. E chi oggi perde il lavoro, non solo per la drammatica situazione sanitaria che si è venuta a creare, è condannato alla miseria o a gravi ristrettezze economiche. Che alla fine di una lunga vita lavorativa e di sacrifici ha il sapore di un’atroce beffa. E’ quello che è successo a Concetta Severino, siciliana di nascita e magentina di adozione. “Mia madre realizzava abiti da sposa, mentre mio padre faceva l’operaio alla Stipel”, racconta sospirando la donna. “Un giorno ci ritrovammo tutti catapultati a Lademburg, in Germania, perché Papà fu trasferito lì, dove in realtà avrebbe dovuto rimanere per poco tempo. Ma i tempi di permanenza si allungavano e così ci ricongiungemmo in terra straniera. Avevo soltanto sei anni e tra molte difficoltà restammo in Germania per altri sei, fino a quando, cioè, Papà fu richiamato in sede a Milano. Questo sballottamento continuo creò diversi problemi a me e a mio fratello, anche perché la maggior parte delle scuole straniere all’epoca non erano riconosciute in Italia e ti lascio immaginare le difficoltà di apprendimento delle lingue. Oggi non parlo più il tedesco e credo di esprimermi in un pessimo italiano. La vita, però, andava avanti e bisognava pur fare qualcosa. Ad un certo punto mi ritrovo a fare la scuola per infermiera professionale all’Ospedale San Carlo. Oltre al convitto, c’era il tirocinio nei reparti, dove lavoravo anche per sei notti di fila. Mi ricordo che l’unica cosa per cui non si poteva sgarrare (sorride) era la cuffietta inamidata in testa perché le suore che gestivano tutto ti mettevano anche in punizione. Per tre anni e mezzo sono andata avanti così”, continua Tina, “finché mi si è presentata l’opportunità di un lavoro presso una clinica stomatologica. Fui assunta con l’allora libretto di lavoro, sul quale venivano apposti i timbri che attestavano l’azienda e il periodo di impegno. Poi con l’avvento del sistema telematico il libretto non servì più e io lo riposi in un cassetto del comò. Cominciai a peregrinare da uno studio dentistico a un altro (in uno di questi chi scrive l’ha conosciuta ed è diventato suo amico, ndr), tra assunzioni e collaborazioni.
Nel frattempo nacque mia figlia e questo mi portò a lasciare il lavoro per qualche tempo, con tutte le difficoltà di ritorno sul mercato che conoscono le donne che hanno partorito. Insomma, per fartela breve, caro Ermanno: ho maturato tanta esperienza come infermiera e assistente alla poltrona, ma ho acquisito conoscenze e competenze anche nell’ambito gestionale di uno studio medico, sotto ogni profilo. Oggi, mi ritrovo senza lavoro e con i contributi versati che non sono sufficienti, per un motivo o per un altro, per ottenere una pensione. Per le scelte di politica economica in tema di previdenza e per la disonestà di qualche datore di lavoro, che non li ha versati interamente e addirittura per niente, mi ritrovo in questa situazione, peraltro comune a molti lavoratori. Sto cercando un lavoro qualsiasi, ma vado regolarmente a sbattere contro un muro di gomma, soprattutto a causa della mia età, che posso dirti tranquillamente: ho 63 anni. E non dirmi che li porto bene perché so che lo pensi veramente, che è oggettivamente vero, ma purtroppo, per il nostro assurdo mercato del lavoro, li porto. Sono una di quelle persone che lo Stato ha messo in un limbo, che conosciamo bene tutti, anche chi non ha questi problemi: troppo vecchia per il mondo del lavoro e troppo giovane per la pensione. In questi ultimi anni ho fatto un po’ di tutto, quello che capitava, anche le pulizie, ma le forze iniziano a mancare. Mi piacerebbe trovare qualcosa da fare anche soltanto mezza giornata, al mattino. Potrei fare la custode, magari. Grazie, comunque, per l’opportunità che mi hai dato di raccontare la mia storia”. Già, la storia di Tina. Che come ho detto all’inizio di questo articolo è comunque uguale a molte altre, soprattutto dopo il Jobs Act e la Legge Fornero. Ci mancava soltanto l’Emergenza Coronavirus. Oggi del lavoro si può fare quello che si vuole. Vecchi ammortizzatori sociali aboliti, nuove indennità introdotte più magre e anche più complicate da ottenere. Del resto, i governi (tutti i governi) tagliano le spese in qualsiasi ambito della vita (o quasi) di questo Paese sprecone e sbilanciato e qualcuno deve pur pagare in qualche modo. Oggi perdere il lavoro, soprattutto per un licenziamento, mette in discussione una vita intera. Oggi si mette sulla strada chiunque per un po’ di profitto in più. Oggi, soprattutto in assenza di una classe politica degna di questo nome, si adattano le leggi in favore del più forte. Oggi si tolgono diritti e tutele a chi lavora per assegnare il potere di vita e di morte a chi ha già il dominio del mercato e delle imprese. Oggi si esalta la flessibilità e lo sfruttamento nel nome della maggiore competitività. Viviamo in una società criminale e avvelenata, alla quale la maggior parte delle persone si sono assuefatte. Precipitiamo sempre più in basso, comparse di un mondo senza regole e senza solidarietà, dove l’ingiustizia sociale è diventata la normalità…
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)